ADRIANO PATERI
Tempo di ricordi in un piccolo mondo di jazz
di Adriano Pateri
La musica, specie il jazz, è stata sempre fondamentale e preminente tra i miei interessi, al di là della vita professionale di lavoro di cui stranamente e a distanza di anni dalla pensione, ho ora solo pochi e flebili ricordi. Il grande compromesso: diventare musicista o seguire la carriera e lo stipendio fisso per mantenere la famiglia mantenendo l'hobby della musica. Fu scelta la seconda via, anche per la convinzione di non possedere il talento necessario per un vero successo nella carriera musicale. Rudimenti di teoria musicale seguiti da un paio di anni di studi volatili e intermittenti impartiti da mia madre insegnante di pianoforte e 'infilati' tra gli studi scolastici. Mio padre, figlio di notaio, ignorava il jazz come genere musicale, preferendo la lettura del libretto durante l'ascolto di Opere musicali. Una casa più o meno musicale quindi, ma niente jazz. Studi classici, laurea in giurisprudenza ma niente notaio perché emigrato in Inghilterra per poi girare l'Europa per oltre 15 anni e sempre per la stessa azienda. Era il 1958 ma il 'bug', l'insetto portatore del virus jazzistico, mi aveva già punto più di dieci anni prima, grazie all'arrivo degli americani con i loro V-disc. Il jazz a livello amatoriale era già attivo nei miei anni giovanili, ai tempi dell'università e anche prima. Vivevamo a Civitavecchia dove mio padre ufficiale di marina era responsabile della stazione semaforica all'interno del Forte Michelangelo, nel cuore del porto. Viaggi in treno, a e da Roma, per la frequenza universitaria ma sempre con questa musica in testa. Il porto pullulava di grosse navi da carico Liberty con i sostanziosi aiuti del piano Marshall tra l'altro. Mia madre, di larghe vedute, ospitava spesso dei marittimi americani di colore capaci di suonare il piano. Furono loro i primi a mostrarmi le inversioni negli accordi di 7a, 9a. 11a e 13a. Conservo ancora gratitudine per loro, anche se uno di essi ricordo che un giorno, dopo avergli suonato bene o male un valzer di Chopin, mi disse chiaramente che dovevo continuare con quella musica ignorando le inversioni degli accordi di jazz. Sono cose difficili da dimenticare.
La prima disavventura fu quando anziché un americano di colore capitò a casa, invitato, Hengel Gualdi con il suo clarinetto. Gualdi era parte di un'orchestra impiegata in una 'rivista di varietà in programma nel teatro cittadino. Gualdi ricordo, senza preavviso, batté un tempo velocissimo seguito dalle note di "Body and soul". Il nostro gruppo arrancò per un po' su quel diabolico tempo doppiato, poi uno alla volta smettemmo di suonare tra le risatine benevolmente ironiche di Gualdi. La cosa ovviamente lasciò il segno.
Con gli anni e specialmente all'estero la mia musica part-time continuò e anche con musicisti di vaglia come a Londra nel club Flamingo (oggi scomparso) di Picadilly Circus. Fu qui che un giorno, mentre mi divertivo accompagnando Thad Jones in un "A foggy day in London town", venni estromesso e letteralmente scalzato dalla sedia del piano da parte di un Bill LeSage, valente vibrafonista/pianista inglese. Ci rimasi male ma…mandai giù il rospo. Ubi major…
Un'avventura indimenticabile la vissi a Roma nei primi anni '50 prima di lasciare l'Italia. Ospiti di un magnate della Roma bene e appassionato di jazz ci stavamo divertendo in una jam con amici Romani come Franco Raffaelli, Cicci Santucci, Enzo Scoppa. Ricordo che c'era anche il grande pianista italiano Umberto Cesari. In quei giorni Il Modern Jazz Quartet era a Roma per una serie di concerti. Stavamo suonando un blues quando improvvisamente sentii dietro di me, come un treno che travolge tutto, l'accompagnamento di un basso metronomico con note meravigliose.
Mi voltai e vidi il viso sorridente di Percy Heath che ci trasportò tutti al settimo cielo. Un ricordo memorabile.
In Belgio ho conosciuto molti musicisti a livello internazionale e una volta ho suonato con i grandi Jacques Pelzer, Bobby Jaspar, René Thomas e Benoit Quersin. Ma ho anche l'amaro ricordo di quando mi ritrovai a suonare con il famoso trombonista Slide Hampton. La tensione e il mio nervosismo erano alle stelle e suonando un "Round about midnight' persi il filo del discorso armonico nell'accompagnare (in gergo: andai per rane!) al punto che Slide molto gentilmente mi disse all'orecchio "lay out", in pratica: 'non suonare'. Disavventura dolorosa ma che mi fece capire diverse cose e me ne insegnò altre musicalmente. Per fortuna la mia permanenza di 6 anni in Belgio compensò questo brutto ricordo grazie alla conoscenza e frequentazione di grandi musicisti che sinceramente espressero stima per quel poco che sapevo fare. Uno di questi è il mio amico di una vita Philip Catherine, chitarrista eccezionale a livello mondiale che addirittura mi dedicò una sua composizione intitolata "Adriano" registrata da Chet Baker.
Oggi alla fine dell'autunno dei miei anni questa musica continua a suonarmi in testa ed è una delle cose, se non la più importante, che continua ad illuminare ancora la mia vita.