Jelly Roll Morton
 
 
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Jelly Roll Morton

 

 

di Duncan Schiedt

 

 

“Si sa con assoluta evidenza, al di là di ogni smentita, che New Orleans è culla del jazz, e che proprio io ne sono stato il creatore nell’anno 1902, molti anni prima che si formasse la Dixieland Band”.
Con queste parole, pubblicate nel numero di agosto del 1938 del periodico musicale Down Beat, un compositore, pianista e band leader quasi dimenticato accese un fuoco che, sebbene non abbia bruciato che per poco tempo, portò ai risultati voluti da chi le aveva scritte. Portò sulla carta stampata il nome di Jelly Roll Morton, dandogli nuovamente una identità in un mondo della musica che sembrava averlo scordato. La lettera, una lunga esposizione che il Down Beat pubblicò nella sua interezza, era un gesto tipico di Morton. Era stata sollecitata da un programma radio che dava voce a Robert T. Ripley, uno scrittore e disegnatore d’agenzia le cui popolari strisce a fumetti “Credilo o no” apparivano su molti quotidiani.

Nello spettacolo radiofonico, Ripley aveva presentato il compositore ed editore musicale William Christopher Handy come iniziatore del jazz, dello stomp e del blues. Sentendolo, Morton doveva aver ribollito, perché si trattava di un’invasione nel territorio che a lungo aveva reclamato come proprio. Ci voleva una risposta. Evidentemente, Morton si concesse il tempo per nutrire la propria indignazione e lavorò ad una replica dettagliata, perché passarono cinque mesi prima che la sua polemica lettera fosse pubblicata. Per buona misura, Jelly aveva anche inviato la lettera all’Afro-American di Baltimora, un quotidiano nero.
Continuava dando le ragioni per le quali lui, Jelly Roll Morton, era il vero pioniere di questa musica, e affermava che Handy, un ciarlatano che aveva rubato temi e canzoni altrui, era incapace di suonare o di capire il jazz. Morton forniva nomi, luoghi e date.

Un mese dopo, il Down Beat pubblicò le confutazioni di Handy, un tentativo ragionevole e calmo di rispondere alle accuse di Morton con fatti relativi alla propria carriera nel campo della composizione e dell’editoria. Morton non era affatto un estraneo per lui, dato che ad un certo punto diceva: “... se non lo conoscessi, potrei pensare che sia pazzo”. Handy chiudeva con una citazione da Booker T. Washington che paragonava i neri a dei granchi in un canestro: “Quando uno stava per uscire dal cesto, gli altri lo afferravano e lo ributtavano indietro”.
Il momento di questo scambio d’opinioni probabilmente non era venuto per una semplice coincidenza. Morton, dopo una lunga carriera musicale ricca di successi, si era ridotto a suonare come pianista solitario in una taverna di Washington, D.C., chiamata “Jungle Inn”, dove si esibiva nell’oscurità, mentre la sua musica dal marchio inconfondibile non serviva a fornire molto di più che un sottofondo per rumorose conversazioni. Solo di quando in quando uno o due devoti della sua musica venivano ad esprimere la propria ammirazione. Ma nella primavera di quell’anno, il 1938, Alan Lomax, uno studioso di tradizioni e musiche popolari che lavorava con la Biblioteca del Congresso, aveva invitato Morton a sedersi davanti a un pianoforte e, solo con qualche stimolo occasionale, a raccontare la propria storia in parole e musica. Difficilmente Lomax avrebbe potuto immaginare il torrente di ricordi che Morton avrebbe liberato, mentre il materiale riempiva un disco dopo l’altro nell’apparato portatile di registrazione che Lomax usava in quell’epoca, precedente l’invenzione del nastro magnetico. Questa prova colorita e assolutamente eccezionale, che ha catturato gli ascoltatori fin dal primo momento, racconta dettagliatamente la vita proprio come Jelly Roll Morton la conobbe a New Orleans. Egli descrive con straordinaria vivezza noti personaggi di quei giorni, e le doti favolose dei musicisti di New Orleans che lo circondavano. Ma ascoltando oggi, si è anche più colpiti dal formidabile talento di questo artista al crepuscolo della sua carriera, un pianista ricco di immaginazione e di creatività la cui abilità di improvvisatore viene mostrata molto più chiaramente che nei suoi precedenti dischi prodotti a fini commerciali.

Inoltre, ascoltiamo la sua voce mentre canta, un talento raramente udito prima di questa occasione. Pur minimizzando con Lomax le proprie abilità vocali, egli è tuttavia capace di comunicare lo spirito della sua musica e la franchezza dei testi in modo del tutto nuovo. In quest’ultimo stadio della sua carriera, Morton si trasforma in uno strepitoso cantante.  Nella prefazione alla seconda edizione del suo libro Mister Jelly Roll, pubblicato una decina di anni dopo, e basato su quelle sedute di storia orale, Lomax afferma che Jelly aveva pensato e organizzato la propria storia prima di arrivare alla Biblioteca del Congresso. Ascoltando la voce di Jelly che rievoca avvenimenti e descrive persone, ci si meraviglia della sua memoria e del suo senso della storia applicati alla propria musica. Certo, la storia non si discosta mai troppo dal tema centrale, il ruolo personale di Jelly, ed è facile etichettare tutta l’operazione come pubblicità per se stesso ma, con la testimonianza dei suoi primi lavori discografici e con i ricordi dei musicisti che lo conobbero, soprattutto quelli con cui aveva lavorato in sala di registrazione, è difficile essere scettici. Morton sembra essere stato una di quelle rare personalità le cui millanterie, magari irritanti, erano sempre sostenute dal talento. Almeno dal punto di vista della musica, Jelly era tutto quello che diceva di essere. Se abbia “inventato” il jazz non ha molta importanza; il fatto è che lui era là, ed era uno dei pochissimi di quel tempo ad avere l’intelligenza e la capacità per comunicare, un uomo che era consapevole della storia anche se aveva contribuito a farla.

Per conseguenza, quello che noi sappiamo dei dettagli biografici della vita di Morton, al di là degli elementi musicali verificabili, dipende largamente dai suoi ricordi, colorati quanto possibile dal suo diario. Come sarà evidente, le peregri­nazioni di questo musicista, baro, magnaccia, raccoglitore di scommesse e animale da palcoscenico potrebbero rivaleggiare con quelle di un personaggio romanzesco. In effetti, la sua storia somiglia decisamente al prodotto della fantasia iperattiva di uno scrittore.

È nato in Louisiana il 20 ottobre 1890, come riportato dal certificato di battesimo ritrovato da Larry Gusbee dell’Università dell’Illinois. Morton più di una volta ha dato una data di nascita anticipata di cinque anni, probabilmente per inserire più presto la propria figura nella scena di New Orleans. Il suo vero nome era Ferdinand La Mothe, non quello spesso pubblicato “La Menthe”. Poiché il suo padre naturale se n’era andato quando Jelly era ancora molto piccolo e gli era succeduto un uomo di nome Mouton, è facile vedere l’origine del nome “Morton”, che lui sostenne di avere assunto perché “Non volevo che mi chiamassero ‘Frenchy‘”. Nel nome è anche evidente la sua eredità creola.
Vale la pena notare qui che il matrimonio interrazziale ed altri legami meno formali tra gli originari coloni francesi e la popolazione nera importata diedero come risultato un gruppo ampio ed influente di persone dalla pelle chiara chiamati creoli che, potendo ricevere un’educazione e profitti finanziari non disponibili alle altre popolazioni di colore, furono capaci di affermare la propria posizione unica nella gerarchia sociale del tempo. I creoli allora (e spesso ancora oggi) ritenevano di essere un ceto a parte. La storia del jazz è segnata da musicisti di New Orleans che preferivano suonare solo con altri creoli, o, all’occasione, “che passavano per bianchi”, o che erano chiamati dai loro band leaders bianchi “cubani” o di altra origine latino-americana. Jelly non era meno consapevole di questa differenza dei suoi contemporanei, ma qualunque cosa avesse sentito in privato riguardo a questo argomento non cessò mai di utilizzare chiunque potesse stare alla sua altezza, indipendentemente dal colore. Nel corso della sua vita, comunque, musicisti creoli della Louisiana si distinsero molto spesso nelle sue orchestre discografiche, e noi possiamo solo supporre che si trovasse bene con loro e sapesse cosa aspettarsi.

Si sa che Jelly mostrò interesse per la musica da piccolo, battendo su una padella con dei bastoncini, poi interessandosi al trombone (lo strumento di suo padre) e alla chitarra, entrambi facilmente disponibili in una casa abituata alla musica. Si sedette al pianoforte, uno strumento abbastanza accettabile in casa ma che, come Jelly avrebbe presto scoperto, era visto nei circoli più rozzi come uno strumento da donna, che rendeva sospetta la mascolinità dell’uomo che suonava.
L’ingresso di Jelly, allora, non avvenne attraverso le brass bands,  orchestre itineranti di ottoni, o le orchestre per i balli in società, che erano numerose nella città. Invece, nel periodo dell’adolescenza, senza che lo sapesse la nonna con cui viveva, acquistò abilità al piano nella prima saletta interna di uno o più dei favolosi bordelli di Storyville, l’apertissimo distretto a luci rosse di New Orleans. Mentre le prostitute disponibili si mescolavano ai loro eventuali clienti nella sala più grande, spesso piena di specchi per aumentarne a dismisura la grandezza, il pianista suonava con discrezione in un angolo voltando le spalle alla scena o, talvolta, dietro ad uno schermo. Le mance erano frequenti e ricche, dato che molti clienti delle migliori “case” erano facoltosi uomini del luogo o forti giocatori. Questa esperienza nelle sporting houses di quella che Lomax avrebbe chiamato “la Parigi d’America” avrebbe preparato Morton per molte future attività: suonare in pubblico, sviluppare un repertorio ampio e variato e, non ultima, adescare donne.

Jelly, a differenza di molti suoi contemporanei creoli, cercò di guadagnarsi da vivere unicamente con la libera professione, senza badare a che forma questa potesse prendere. Altri avevano un lavoro diurno - fabbricanti di sigari, lavoratori del cuoio, imbianchini - e suonavano la loro musica solo di notte e nei fine settimana. Jelly, che sdegnava il lavoro manuale, decise di emulare persone come il pianista e compositore Tony Jackson, che era un’istituzione al Gypsy Schaeffer’s place, un approdo di Storyville. Jackson, omosessuale, trasformava i tradizionali, rituali e giocosamente osceni scontri verbali degli adolescenti neri detti “dirty dozens” in canzoni salaci e a doppio senso, ed ispirò al giovane Morton un’ammirazione durata per tutta la vita. Alcuni anni dopo, Jackson avrebbe trovato l’oro con la sua canzone Pretty Woman, un successo della musica leggera.

La vita nei bordelli portò Jelly Roll Morton ad un nuovo livello di prosperità. Dove aveva guadagnato meno di venti dollari per il lavoro di una settimana nell’impiego servile che aveva avuto all’inizio, una volta entrato a Storyville poteva mettersi in tasca quella somma in pochi minuti. Presto fu in grado di permettersi i vestiti alla moda del tempo, ostentati dai giovanotti fuori dai limiti come lui, mentre il suo fisico snello lo rendeva attraente, se non un perdigiorno di bell’aspetto. Un’ affettazione che si sarebbe portato dietro tutta la vita era un diamante incastonato nell’intarsio d’oro di un dente, che gli donava un sorriso scintillante, in ogni senso.
Con l’andare del tempo, il successo locale cominciò ad annoiare Morton. Cominciò a chiedersi se le sue doti non avrebbero potuto portarlo ad uno status più elevato, magari ad una fama nazionale. Per tutta la vita, Morton sarebbe rimasto un “solitario”, che faceva completamente affidamento su se stesso, convinto della propria unicità e certo che le sue scelte avrebbero prevalso. A New Orleans, non aveva mai ingranato del tutto con gli altri musicisti, anche creoli, ma era rimasto in disparte, opportunista, chiacchierone inesausto, sotto tutte le apparenze pieno di sé.
Una sua ambizione era quella di diventare il miglior giocatore di biliardo del mondo, e arricchirsi spogliando gli altri giocatori lungo la strada.

Usando la sua abilità pianistica come esca, allettava gli ingenui a scommettere somme sempre più elevate sul loro valore al biliardo, solo per separarli velocemente  dal loro denaro con un abbagliante talento per mandare la palla dove voleva. Poteva essere un po’ più azzardato che suonare il pianoforte, ma i soldi erano veloci, e se avevi anche una coppia di ragazze che lavoravano nella tua scuderia, tanto meglio. E così Jelly passò qualche anno, spostandosi tra New Orleans e gli stati vicini del Mississippi e dell’Alabama finché, attorno al 1910 o 1911, lo si poteva trovare impegnato a recitare un ruolo teatrale in uno spettacolo itinerante con base a Memphis, Tennessee. Restò con questa compagnia per circa un paio d’anni, lavorando per un po’ con l’orchestra di W.C. Handy, che era una istituzione a Memphis e nel Midwest. Morton passò anche qualche tempo con i McCabe’s Minstrels Troubadours, che lo portarono in città come St. Louis e Kansas City, dove il ragtime aveva raggiunto il vertice e il jazz stava cominciando ad attirare l’attenzione. Nonostante la fiducia che riponeva in se stesso, e il suo repertorio ormai considerevole, Jelly era restio a sfidare i re del ragtime in quella zona, poiché la loro reputazione era ben nota a New Orleans. Per porre Morton nella giusta prospettiva, occorre dire che a quell’epoca stava assorbendo tutto quello che ascoltava durante i  viaggi, utilizzando il meglio, scartando il resto, e sviluppando quello che molti hanno visto come un originale approccio alla musica che, simile al lavoro di James P. Johnson sulla costa orientale, gettò un ponte tra il ragtime e le modalità del jazz. Furono entrambi figure di transizione nella musica, ma, per varie ragioni, Morton raggiunse una fama maggiore, se non precedente, sulla scena nazionale. Ma dove Johnson si dedicò totalmente alla sua musica, Jelly continuò ad usare la propria musica come un mezzo per ottenere un fine, e quando Johnson stava guadagnando attenzioni a New York come solista, Jelly continuava a esibirsi di città in città in diversi circuiti di vaudeville e a suonare dove lo portava la sorte.

Nel 1912, un flusso straordinario di neri provenienti da città e campagne del Sud si stabilirono al Nord, richiamati dalle opportunità di lavoro e da quello che era visto come un miglior clima razziale. Cincinnati, Detroit, Cleveland, Milwaukee ed anche più a nord Minneapolis furono tutte meta degli emigranti, ma nessuna quanto Chicago, la più grande di tutte. Chiunque arrivasse scriveva a casa e convinceva gli altri a venire e lo scoppio della guerra mondiale, con la crescita dell’espansione industriale che causò, non fece altro che incrementare la fiumana. Insieme con questi cercatori di lavoro vennero musicisti, cantanti e altri intrattenitori, che fornivano visioni familiari e suoni di casa.
Jelly Roll Morton, abbigliato con cura, col suo dente di diamante, ed esperto delle cose del mondo, era tra i primi arrivati a Chicago, e non perse tempo a cercare, e ad ottenere, un ingaggio come pianista in uno o due caffé di State Street nel formicolante lato sud della città. Tony Jackson, il suo mentore di un tempo, si era già stabilito all’Elite Café con le sue canzonacce oscene. Freddie Keppard, un creolo che alla tromba aveva uno stile poderoso e che Morton ammirava sopra ogni altro, era anche lui in città insieme con molti altri illustri uomini di New Orleans.
Ben presto, Jelly trovò che poteva raggiungere un pubblico più vasto offrendo un’orchestra per i balli, e il risultato fu “Jelly Roll Morton’s Incomparables”, un quintetto che più tardi Jelly affermò essere stata la seconda orchestrina Dixieland della storia (la prima era la Creole Band di Freddie Keppard). Avrebbe usato questo complesso in piccoli tour.

Non essendo mai stato tipo da restare a lungo nello stesso posto, la sua successiva visita fu in California. Insieme al clima attraente e all’economia in rapida espansione in cui abbondavano le occasioni per la gente di spettacolo e per gli opportunisti come Morton, una buona ragione per andarci era la presenza all’Ovest di una donna con la quale il suo rapporto era diventato sempre meno casuale. Costei era Anita Gonzales, sorella del contrabbassista di New Orleans Bill Johnson. Lei si era trasferita qualche tempo prima a Las Vegas, dove mandava avanti una pensione. Jelly attraversò l’intera distanza al volante di una vettura da turismo, spedendo il suo vasto guardaroba in treno. Arrivato a Los Angeles tanto impolverato e scarmigliato da essere irriconoscibile, trovò presto degli amici e si impiegò al Cadillac Café, un lavoro che gli era stato promesso. Anche Anita, che intanto aveva messo da parte un po’ di soldi, arrivò in città e aprì un’altra pensione, dandole il proprio nome.
Cattivi investimenti portarono alla perdita di quello stabile, e Jelly e Anita andarono a San Francisco, dove condussero un cabaret chiamato The Jupiter. Laggiù furono la loro rovina alcuni problemi di licenza, e Anita volò a Seattle, nello stato di Washington. Jelly la seguì, e si lasciò coinvolgere dal gioco d’azzardo, perdendo molto del suo denaro, salvato solo da un’offerta di portare una band a Vancouver, appena oltre il confine canadese. Arrivato là, Jelly si rimise a giocare, e stavolta vinse abbastanza per pagare a sé e ad Anita un viaggio via mare fino in Alaska. Dopo di che si separarono. Lei tornò a Los Angeles, mentre Jelly accettò dei lavori in posti improbabili come Casper, Wyoming, e Denver, Colorado, dove suonò nell’orchestra di George Morrison e fece la conoscenza di Andy Kirk, il contrabbassista di Morrison.

Una volta di più, la lusinga dell’arricchimento veloce fu la causa della caduta di Morton. Lasciò Denver dopo aver perduto quasi tutti i suoi soldi e i diamanti che aveva comprato con le vincite precedenti. Dopo un breve fiasco che ebbe a che fare con un cavallo chiamato Red Cloud, Nuvola Rossa, che Jelly sosteneva non sarebbe riuscito a superare lui nella corsa, l’approdo seguente fu la città messicana di confine di Tia Juana, dove scrisse una nuova composizione, “The Pearls”, dedicandola ad una graziosa cameriera locale di sua conoscenza.
Una collaborazione con gli Spike Brothers, a Los Angeles, finì quando una delle composizioni di Jelly, “The Wolverines”, apparve in stampa con i loro nomi come co-compositori. La Melrose Music Company di Chicago propose un buon anticipo per i diritti di pubblicazione, che egli accettò. Sembra che il brano, che i Melrose ribattezzarono “Wolverine Blues”, fosse già stato largamente eseguito a Chicago. Con quel denaro, Jelly lasciò Los Angeles e Anita Gonzales, e si ristabilì nel Midwest.

Nei circa otto anni di assenza di Morton da Chicago, erano successe molte cose.
Nel 1923, il proibizionismo - il divieto di vendere o di consumare liquori alcolici e birra - era stato in vigore per anni, e le bande criminali erano in condizione di evadere la legge dello stato, e rendersi complici dei normali cittadini che non volevano abbandonare le proprie abitudini nel bere. Le gangs, in alcune città quasi un governo nel governo, non controllavano solo la produzione o l’importazione dell’alcool, ma anche i posti in cui gli alcolici erano distribuiti. Avevano anche rilevato il gioco d’azzardo e la prostituzione della città, e per Jelly erano ora chiuse le vecchie affidabili “linee secondarie”. Ora sarebbe stata la musica o nient’altro. Ironicamente, questo lo avrebbe portato direttamente ai suoi giorni più grandi.
Stava avvicinandosi alla metà dei trent’anni, ed era un musicista maturo con una vasta esperienza nella direzione di orchestre e una non comune opinione su come la musica andasse suonata, particolarmente la sua. Era dunque in perfetto equilibrio per cavalcare l’onda della musica chiamata jazz attraverso tutta l’America. E,come Duke Ellington pochi anni dopo, avrebbe usato la propria orchestra per spiegare le proprie composizioni e le proprie teorie. Per Ellington, comunque, il compito sarebbe stato più semplice almeno sotto un aspetto importante. La sua orchestra avrebbe portato un gruppo compatto di musicisti lungo gli importanti anni di formazione, mentre Morton sembrava incapace di tenere insieme i suoi uomini, presentando uno schieramento diverso quasi ogni volta che entrava in uno studio di registrazione. Così Morton doveva praticamente istruire la sua orchestra ogni volta che incidevano un disco, gli uomini di Ellington invece arrivavano già preparati.

Qualche settimana dopo il suo arrivo in città, Morton riuscì a fare la sua prima registrazione fonografica, per l’etichetta Paramount, guidando un sestetto, come prevedibile, in due delle sue composizioni, Big Fat Ham e Muddy Water Blues. Poi, in due successivi giorni di luglio, a Richmond, Indiana, mise sulla cera parecchi importanti assoli, e si unì all’orchestra bianca di Chicago diretta da Paul Mares, i New Orleans Rhythm Kings, in molti brani, tra i quali le proprie composizioni Mr. Jelly Roll, London Blues e Milenberg Joys. La seduta fu senza dubbio indirizzata dalla Melrose Company, che pubblicò molto se non la totalità del materiale registrato in quella occasione. Nel marzo precedente, i NORK avevano registrato il Wolverine Blues di Morton.

Più di molti musicisti del suo tempo, Morton era acutamente consapevole di cosa fosse importante nella scena musicale. Imparò rapidamente chi fosse importante; si assicurò che la gente sapesse di lui. Come compositore che adesso aveva un considerevole repertorio di musiche proprie - alcune interamente originali, altre rielaborate da fonti diverse - andò alla ricerca di pubblicazione e di protezione dei diritti d’autore. Doveva trovarli con i Melrose Brothers, Lester e Walter, che avevano un negozio di musica affiancato da una casa editrice. Sebbene essi avessero già pubblicato Wolverine Blues, Jelly evidentemente pensava che avessero ancora bisogno di un’opera di persuasione, secondo la descrizione del loro primo incontro con l’allampanato pianista fatta da Lester Melrose. Raccontò di Jelly che avanzava a grandi passi nel negozio con un cappello da cowboy e un fazzoletto rosso attorno al collo. Si presentò a voce alta e si lanciò in una laudatoria descrizione delle proprie gesta e dei propri titoli, non meno importante dei quali era il suo status di “creatore del jazz”.

Per concludere la presentazione, Jelly sedette ad un vicino pianoforte e, secondo Melrose, provò praticamente tutto quello che aveva detto al suo affascinato auditorio di due persone. Jelly divenne una figura familiare dalle parti dell’ufficio dei Melrose. Sebbene più tardi pretendesse di avere fatto parte del gruppo di arrangiatori fissi dei fratelli Melrose, si tratta manifestamente di una esagerazione. James Dapogny, in una lettera inviata all’autore di quest’opera, fa notare che mentre non poteva aver creato arrangiamenti per la compagnia, i propri arrangiamenti, come riportati su disco, potevano essere stati la base per creare gli arrangiamenti orchestrali pubblicati dai Melrose di temi di Morton quali Sidewalk Blues, Dead Man Blues, Jelly Roll Blues e altri. Questi erano probabilmente stati messi a punto dal gruppo di arrangiatori dei Melrose come Charles Luke (che scrisse Smoke House Blues), Elmer Schoebel e Mel Stitzel (autore di The Chant). Dapogny fa anche notare dove Jelly usò arrangiamenti preesistenti dei Melrose per alcuni dei propri dischi: The Chant, Black Bottom Stomp, The Pearls eccetera.
Comporre e arrangiare possono aver consumato molti dei suoi giorni, ma alla notte Morton era occupato a suonare da solo, o portando la band in una breve tournée. Si sa che lui e W.C. Handy incrociarono le loro strade una volta di più quando Handy “fronteggiò” l’orchestra di Jelly per un breve periodo. Si racconta che Morton divenne visibilmente e udibilmente agitato quando un presentatore introdusse l’orchestra come quella di Handy.

Essendogli state negate le sue attività alternative di produzione e di guadagno, Jelly registrò dischi tutte le volte che gli fu possibile, usando raramente due volte gli stessi musicisti, il che indicava la natura provvisoria delle cose. Quando le orchestre di Morton avevano un lavoro, si trattava generalmente di un ingaggio per una sola sera in un club locale, o di un giro fuori città. Ebbe una giornata estremamente produttiva alla Gennett, quando furono registrati undici titoli, nove dei quali furono pubblicati; una seduta unica alla Vocalion e tre ai Marsh Laboratories dove era prodotta la rarissima etichetta Autograph. Una di queste sedute di incisione fece incontrare Jelly con il grande King Oliver, in un duetto. Una seduta finale per la Gennett, in cui utilizzò la sua orchestra “di giro”, ebbe come risultato la pubblicazione di una sola facciata. Ancora in un altro genere di lavoro, Jelly realizzò una serie di rulli di pianola, portando la sua musica in case sparse un po’ in tutta l’America dove altrimenti non avrebbe potuto essere ascoltato.

Anni dopo, durante le sedute di registrazione con Lomax, Jelly avrebbe espresso la sua filosofia dell’esecuzione jazzistica, un distillato di tutto quello che era passato in precedenza nella sua vita musicale. Che la musica originata a New Orleans gli apparteneva incontestabilmente (dopo tutto, l’aveva inventata lui!); che una traccia di musica spagnola era un condimento essenziale al jazz; che erano ammessi tempi più lenti per un’esecuzione jazzistica più efficace; che riffs (brevi frasi ritmiche ripetute con slancio), breaks (passaggi generalmente di quattro battute in cui suona un solo strumento e il resto del gruppo tace) e il mantenimento della melodia di base erano parti indispensabili del jazz. Erano questi i suoi dogmi. In una dichiarazione che merita di essere citata, affermò che il jazz deve essere “suonato dolcemente, morbidamente...con grande enfasi ritmica”. Dolcemente, perché “devi essere capace di scendere per poter salire. Se un bicchier d’acqua è pieno, non lo puoi riempire di più, ma se hai mezzo bicchiere, hai l’opportunità di metterci dell’altra acqua. La musica jazz è basata sullo stesso principio...”.
Nel settembre del 1926, ancora evidentemente sotto l’egida della Melrose Company, Jelly era nella giusta posizione per mettere in buone mani le sue idee fondamentali, quando iniziò la sua lunga serie di incisioni alla Victor. Avrebbe avuto una buona tecnica di registrazione ed una eccellente distribuzione nazionale. Avrebbe avuto l’opportunità di mettere sulla cera alcune delle sue migliori composizioni, di creare teatralità ed eccitamento negli arrangiamenti di quei brani, e di riunire alcuni dei migliori musicisti. Per la prima registrazione furono infatti tutti al massimo livello: George Mitchell, cornetta, il veterano Kid Ory al trombone, Omer Simeon al clarinetto, Johnny St. Cyr al banjo, John Lindsay, contrabbasso, e Andrew Hilaire, batteria. Eccetto Mitchell, che era del Kentucky, tutti erano della Louisiana. I pezzi comprendevano il suo Black Bottom Stomp e i già citati The Chant e Smoke House Blues, nei quali erano coinvolte le mani di altri arrangiatori.

Omer Simeon, in particolare, ha lasciato delle impressioni rivelatrici dello stile di lavoro di Morton, riferendo che Jelly era pieno di vita alle prove, che erano lunghe ed eseguite con molta cura. Ha aggiunto che Jelly voleva ritrovare soprattutto “quel suono New Orleans, e che se non avesse potuto ottenerlo dai musicisti che aveva scelto, lo avrebbe trovato con qualcun altro”. Simeon aveva proseguito dicendo che gli uomini erano liberi di creare i loro  passaggi solistici e di elaborare i propri breaks, uno degli espedienti musicali più cari a Morton. Ma la sua stretta aderenza agli effetti che desiderava di più poteva causare un certo risentimento in qualche altro musicista che avesse la propria filosofia musicale. Ma i tempi stavano cambiando e nuove cose stavano  accadendo nella musica. Secondo Simeon era per questo che Jelly trovava tante difficoltà a tenere insieme l’orchestra da un’occasione all’altra.

Le numerose sedute Victor che riempirono  molti degli anni seguenti di Morton erano salutate con entusiasmo dai compratori di tutta la nazione. La musica era diversa: non era Dixieland, a cui si erano abituati alla metà degli anni Venti; non era solo un gruppo di giovanotti che cercavano di suonare “hot” nei loro strumenti; nemmeno, fossero stati consapevoli dei diversi stili, era il puro jazz di New Orleans come lo si era ascoltato nella città in cui era nato, il che succedeva di rado, semmai comunque ascoltato nei dischi. In effetti quello che stavano ascoltando era, come Orrin Keepnews ha esposto nella sua discussione su Morton nel libro The Jazz Makers, non il jazz di New Orleans, ma il jazz di Jelly Roll Morton... basato sui modelli più vecchi, ma con una ricca complessità, una spettacolarizzazione, una gamma espressiva che andava dalla ruvidezza alla poesia...che riflette quest’uomo e perciò non può essere esattamente duplicata da nessun altro.

Quando Morton si spostò sulla costa orientale, registrando nello studio Victor di Camden, nel New Jersey, anche Simeon era là,come clarinettista preferito da Morton. Nel novembre del 1928 Morton utilizzò alcuni degli uomini di Luis Russell, tra i quali Red Allen, J.C. Higginbotham, Albert Nicholas, Pops Foster e Paul Barbarin. Tutti eccetto Higginbotham erano della Louisiana. L’ultima seduta dell’orchestra nell’ottobre del 1930 avrebbe compreso il trombettista Ward Pinkett e il trombonista Geechie Fields, entrambi tra i favoriti di Morton. Sarebbe seguito un lungo periodo di aridità, e Jelly Roll Morton non avrebbe potuto esporre nuovamente su disco le proprie idee fino al momento delle interviste per la Library of Congress. La sua sola seduta di registrazione conosciuta nel corso di quegli anni è con un gruppo di Wingy Manone in cui divide l’onore del pianoforte con Teddy Wilson.

I suoi giorni a New York coincisero con i peggiori anni della Depressione e Jelly Roll Morton, che aveva volato alto nell’ultima parte degli anni Venti, si ritrovò in giorni magri. La sua lealtà nei confronti del suo genere di jazz di New Orleans era sopravvissuta al gusto del pubblico per quella musica “di vecchio stampo”. Uomini più giovani con idee più giovani avevano creato un proprio stile, chiamato Swing.
Perseverando nel proprio credo, Jelly mantenne una serie irregolare di ingaggi con orchestre improvvisate per lavori in teatri o in sale da ballo. Più spesso lo si poteva trovare dentro o attorno al Rhythm Club di Harlem, un ritrovo di musicisti, dove pontificava a lungo nonostante lo scherno dei giovani che facevano dischi e si ritrovavano citati sulla stampa specializzata. Jelly avrebbe voluto tornare a casa da sua moglie Mabel (si erano sposati a Chicago nel 1927) e liberarsi dalle sue frustrazioni, ma si svegliava il giorno dopo rinnovato e determinato a combattere per quello in cui credeva.

Poi, nell’autunno del 1939, vi fu una breve rinascita, parzialmente stimolata dalla pubblicità che circondava le sue registrazioni per la Library of Congress e naturalmente dalla controversia creata attorno alla trasmissione radio di Ripley e dalla lettera che ne era conseguita. Dalla Bluebird venne un’offerta per registrare a New York con un gruppo alla sua altezza, che avrebbe compreso il grande clarinettista e sassofonista di New Orleans Sidney Bechet, il trombettista Sidney De Paris, il contrabbassista Wellman Braud, Albert Nicholas al clarinetto e Zutty Singleton alla batteria.
Il materiale era familiare, composizioni di Morton unite a standards, canzoni entrate nel repertorio jazzistico, tradizionali. Due settimane più tardi, per un’altra seduta, Bechet se ne era andato, e il materiale era ancora più pesantemente tradizionale. Solo la canzone Don’t You Leave Me Here apparteneva al vecchio repertorio.
Sebbene fossero ascoltabilissime, queste tarde registrazioni orchestrali di Morton furono accusate dai puristi di essere ibride, caratterizzate da contrasti stilistici in una musica che non si avvicina mai alla qualità dei vecchi classici Victor.
Forse Jelly non era più capace di imporre la propria autorità o di comunicare correttamente le proprie idee. È probabile che i suoi musicisti non credessero più in quello che era loro chiesto di fare; erano passati ad altre cose.

Quando la Bluebird chiuse, una piccola etichetta chiamata General prese il suo posto. Nel dicembre del 1939 e nel gennaio del 1940 vennero registrate due sedute di solo pianoforte e tre con una piccola orchestra, destinate ad essere pubblicate sia dall’etichetta General sia dalla Commodore. Ancora una volta la voce di Jelly che canta ruba quasi la scena, ma una collana di squisiti assoli pianistici innalza l’intera serie ai più alti livelli e, con la loro intimità ed onestà, sembra raccontare, per brevi momenti, quel che Jelly Roll Morton stava pensando.
In quegli anni, Morton lamentò più volte che i Melrose e la ASCAP non gli avessero dato quanto gli spettava, e si preoccupava ancora di più della protezione dei diritti d’autore di quanto non avesse fatto ai suoi esordi. Amichevolmente aiutato da Roy J. Carew, che si era occupato dei suoi interessi anche quando Morton era al Jungle Inn, Jelly pubblicò cinque brani con una compagnia fondata da Carew, compreso il famoso Sweet Substitute. Ma la sua giornata si avviava alla fine, e Jelly non stava bene di salute.

Incapace di far fronte alla forza fisica richiesta per dirigere un’orchestra, decise di vedere ancora una volta la California, col pretesto di prendersi cura di una madrina malaticcia. Lasciando Mabel a New York, con la promessa di mandarle il denaro per il suo biglietto per New Orleans dove pensava sarebbe stata al sicuro, partì per il lungo viaggio in auto nel novembre del 1940.
Alla guida della sua Lincoln, trainò una seconda automobile, la sua Cadillac, per tutto il tragitto. Fu investito da tempeste, ed ebbe bisogno d’aiuto almeno una volta, ma finalmente arrivò a Los Angeles, dove oltre alla sua madrina lo aspettava la sua vecchia fiamma Anita Gonzales.
Ma la riunione sarebbe durata poco. Asma e problemi cardiaci tormentavano il suo fisico, e un soggiorno in un sanatorio privato non gli portò che pochi benefici. Dopo un breve ritorno a casa, fu ammesso al Los Angeles County General Hospital, dove morì il 10 luglio 1941.
Diversamente da molti jazzmen del suo tempo, Jelly Roll visse abbastanza da sapere qualcosa del posto che avrebbe occupato nella storia.

               
               
 
   
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