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Jelly Roll Morton
di Duncan Schiedt
“Si sa con assoluta evidenza, al di là di ogni smentita, che New Orleans è culla del jazz, e che proprio io ne sono stato il creatore nell’anno 1902, molti anni prima che si formasse la Dixieland Band”. Nello spettacolo radiofonico, Ripley aveva presentato il compositore ed editore musicale William Christopher Handy come iniziatore del jazz, dello stomp e del blues. Sentendolo, Morton doveva aver ribollito, perché si trattava di un’invasione nel territorio che a lungo aveva reclamato come proprio. Ci voleva una risposta. Evidentemente, Morton si concesse il tempo per nutrire la propria indignazione e lavorò ad una replica dettagliata, perché passarono cinque mesi prima che la sua polemica lettera fosse pubblicata. Per buona misura, Jelly aveva anche inviato la lettera all’Afro-American di Baltimora, un quotidiano nero. Un mese dopo, il Down Beat pubblicò le confutazioni di Handy, un tentativo ragionevole e calmo di rispondere alle accuse di Morton con fatti relativi alla propria carriera nel campo della composizione e dell’editoria. Morton non era affatto un estraneo per lui, dato che ad un certo punto diceva: “... se non lo conoscessi, potrei pensare che sia pazzo”. Handy chiudeva con una citazione da Booker T. Washington che paragonava i neri a dei granchi in un canestro: “Quando uno stava per uscire dal cesto, gli altri lo afferravano e lo ributtavano indietro”. Inoltre, ascoltiamo la sua voce mentre canta, un talento raramente udito prima di questa occasione. Pur minimizzando con Lomax le proprie abilità vocali, egli è tuttavia capace di comunicare lo spirito della sua musica e la franchezza dei testi in modo del tutto nuovo. In quest’ultimo stadio della sua carriera, Morton si trasforma in uno strepitoso cantante. Nella prefazione alla seconda edizione del suo libro Mister Jelly Roll, pubblicato una decina di anni dopo, e basato su quelle sedute di storia orale, Lomax afferma che Jelly aveva pensato e organizzato la propria storia prima di arrivare alla Biblioteca del Congresso. Ascoltando la voce di Jelly che rievoca avvenimenti e descrive persone, ci si meraviglia della sua memoria e del suo senso della storia applicati alla propria musica. Certo, la storia non si discosta mai troppo dal tema centrale, il ruolo personale di Jelly, ed è facile etichettare tutta l’operazione come pubblicità per se stesso ma, con la testimonianza dei suoi primi lavori discografici e con i ricordi dei musicisti che lo conobbero, soprattutto quelli con cui aveva lavorato in sala di registrazione, è difficile essere scettici. Morton sembra essere stato una di quelle rare personalità le cui millanterie, magari irritanti, erano sempre sostenute dal talento. Almeno dal punto di vista della musica, Jelly era tutto quello che diceva di essere. Se abbia “inventato” il jazz non ha molta importanza; il fatto è che lui era là, ed era uno dei pochissimi di quel tempo ad avere l’intelligenza e la capacità per comunicare, un uomo che era consapevole della storia anche se aveva contribuito a farla. Per conseguenza, quello che noi sappiamo dei dettagli biografici della vita di Morton, al di là degli elementi musicali verificabili, dipende largamente dai suoi ricordi, colorati quanto possibile dal suo diario. Come sarà evidente, le peregrinazioni di questo musicista, baro, magnaccia, raccoglitore di scommesse e animale da palcoscenico potrebbero rivaleggiare con quelle di un personaggio romanzesco. In effetti, la sua storia somiglia decisamente al prodotto della fantasia iperattiva di uno scrittore. È nato in Louisiana il 20 ottobre 1890, come riportato dal certificato di battesimo ritrovato da Larry Gusbee dell’Università dell’Illinois. Morton più di una volta ha dato una data di nascita anticipata di cinque anni, probabilmente per inserire più presto la propria figura nella scena di New Orleans. Il suo vero nome era Ferdinand La Mothe, non quello spesso pubblicato “La Menthe”. Poiché il suo padre naturale se n’era andato quando Jelly era ancora molto piccolo e gli era succeduto un uomo di nome Mouton, è facile vedere l’origine del nome “Morton”, che lui sostenne di avere assunto perché “Non volevo che mi chiamassero ‘Frenchy‘”. Nel nome è anche evidente la sua eredità creola. Si sa che Jelly mostrò interesse per la musica da piccolo, battendo su una padella con dei bastoncini, poi interessandosi al trombone (lo strumento di suo padre) e alla chitarra, entrambi facilmente disponibili in una casa abituata alla musica. Si sedette al pianoforte, uno strumento abbastanza accettabile in casa ma che, come Jelly avrebbe presto scoperto, era visto nei circoli più rozzi come uno strumento da donna, che rendeva sospetta la mascolinità dell’uomo che suonava. Jelly, a differenza di molti suoi contemporanei creoli, cercò di guadagnarsi da vivere unicamente con la libera professione, senza badare a che forma questa potesse prendere. Altri avevano un lavoro diurno - fabbricanti di sigari, lavoratori del cuoio, imbianchini - e suonavano la loro musica solo di notte e nei fine settimana. Jelly, che sdegnava il lavoro manuale, decise di emulare persone come il pianista e compositore Tony Jackson, che era un’istituzione al Gypsy Schaeffer’s place, un approdo di Storyville. Jackson, omosessuale, trasformava i tradizionali, rituali e giocosamente osceni scontri verbali degli adolescenti neri detti “dirty dozens” in canzoni salaci e a doppio senso, ed ispirò al giovane Morton un’ammirazione durata per tutta la vita. Alcuni anni dopo, Jackson avrebbe trovato l’oro con la sua canzone Pretty Woman, un successo della musica leggera. La vita nei bordelli portò Jelly Roll Morton ad un nuovo livello di prosperità. Dove aveva guadagnato meno di venti dollari per il lavoro di una settimana nell’impiego servile che aveva avuto all’inizio, una volta entrato a Storyville poteva mettersi in tasca quella somma in pochi minuti. Presto fu in grado di permettersi i vestiti alla moda del tempo, ostentati dai giovanotti fuori dai limiti come lui, mentre il suo fisico snello lo rendeva attraente, se non un perdigiorno di bell’aspetto. Un’ affettazione che si sarebbe portato dietro tutta la vita era un diamante incastonato nell’intarsio d’oro di un dente, che gli donava un sorriso scintillante, in ogni senso. Usando la sua abilità pianistica come esca, allettava gli ingenui a scommettere somme sempre più elevate sul loro valore al biliardo, solo per separarli velocemente dal loro denaro con un abbagliante talento per mandare la palla dove voleva. Poteva essere un po’ più azzardato che suonare il pianoforte, ma i soldi erano veloci, e se avevi anche una coppia di ragazze che lavoravano nella tua scuderia, tanto meglio. E così Jelly passò qualche anno, spostandosi tra New Orleans e gli stati vicini del Mississippi e dell’Alabama finché, attorno al 1910 o 1911, lo si poteva trovare impegnato a recitare un ruolo teatrale in uno spettacolo itinerante con base a Memphis, Tennessee. Restò con questa compagnia per circa un paio d’anni, lavorando per un po’ con l’orchestra di W.C. Handy, che era una istituzione a Memphis e nel Midwest. Morton passò anche qualche tempo con i McCabe’s Minstrels Troubadours, che lo portarono in città come St. Louis e Kansas City, dove il ragtime aveva raggiunto il vertice e il jazz stava cominciando ad attirare l’attenzione. Nonostante la fiducia che riponeva in se stesso, e il suo repertorio ormai considerevole, Jelly era restio a sfidare i re del ragtime in quella zona, poiché la loro reputazione era ben nota a New Orleans. Per porre Morton nella giusta prospettiva, occorre dire che a quell’epoca stava assorbendo tutto quello che ascoltava durante i viaggi, utilizzando il meglio, scartando il resto, e sviluppando quello che molti hanno visto come un originale approccio alla musica che, simile al lavoro di James P. Johnson sulla costa orientale, gettò un ponte tra il ragtime e le modalità del jazz. Furono entrambi figure di transizione nella musica, ma, per varie ragioni, Morton raggiunse una fama maggiore, se non precedente, sulla scena nazionale. Ma dove Johnson si dedicò totalmente alla sua musica, Jelly continuò ad usare la propria musica come un mezzo per ottenere un fine, e quando Johnson stava guadagnando attenzioni a New York come solista, Jelly continuava a esibirsi di città in città in diversi circuiti di vaudeville e a suonare dove lo portava la sorte. Nel 1912, un flusso straordinario di neri provenienti da città e campagne del Sud si stabilirono al Nord, richiamati dalle opportunità di lavoro e da quello che era visto come un miglior clima razziale. Cincinnati, Detroit, Cleveland, Milwaukee ed anche più a nord Minneapolis furono tutte meta degli emigranti, ma nessuna quanto Chicago, la più grande di tutte. Chiunque arrivasse scriveva a casa e convinceva gli altri a venire e lo scoppio della guerra mondiale, con la crescita dell’espansione industriale che causò, non fece altro che incrementare la fiumana. Insieme con questi cercatori di lavoro vennero musicisti, cantanti e altri intrattenitori, che fornivano visioni familiari e suoni di casa. Non essendo mai stato tipo da restare a lungo nello stesso posto, la sua successiva visita fu in California. Insieme al clima attraente e all’economia in rapida espansione in cui abbondavano le occasioni per la gente di spettacolo e per gli opportunisti come Morton, una buona ragione per andarci era la presenza all’Ovest di una donna con la quale il suo rapporto era diventato sempre meno casuale. Costei era Anita Gonzales, sorella del contrabbassista di New Orleans Bill Johnson. Lei si era trasferita qualche tempo prima a Las Vegas, dove mandava avanti una pensione. Jelly attraversò l’intera distanza al volante di una vettura da turismo, spedendo il suo vasto guardaroba in treno. Arrivato a Los Angeles tanto impolverato e scarmigliato da essere irriconoscibile, trovò presto degli amici e si impiegò al Cadillac Café, un lavoro che gli era stato promesso. Anche Anita, che intanto aveva messo da parte un po’ di soldi, arrivò in città e aprì un’altra pensione, dandole il proprio nome. Una volta di più, la lusinga dell’arricchimento veloce fu la causa della caduta di Morton. Lasciò Denver dopo aver perduto quasi tutti i suoi soldi e i diamanti che aveva comprato con le vincite precedenti. Dopo un breve fiasco che ebbe a che fare con un cavallo chiamato Red Cloud, Nuvola Rossa, che Jelly sosteneva non sarebbe riuscito a superare lui nella corsa, l’approdo seguente fu la città messicana di confine di Tia Juana, dove scrisse una nuova composizione, “The Pearls”, dedicandola ad una graziosa cameriera locale di sua conoscenza. Nei circa otto anni di assenza di Morton da Chicago, erano successe molte cose. Qualche settimana dopo il suo arrivo in città, Morton riuscì a fare la sua prima registrazione fonografica, per l’etichetta Paramount, guidando un sestetto, come prevedibile, in due delle sue composizioni, Big Fat Ham e Muddy Water Blues. Poi, in due successivi giorni di luglio, a Richmond, Indiana, mise sulla cera parecchi importanti assoli, e si unì all’orchestra bianca di Chicago diretta da Paul Mares, i New Orleans Rhythm Kings, in molti brani, tra i quali le proprie composizioni Mr. Jelly Roll, London Blues e Milenberg Joys. La seduta fu senza dubbio indirizzata dalla Melrose Company, che pubblicò molto se non la totalità del materiale registrato in quella occasione. Nel marzo precedente, i NORK avevano registrato il Wolverine Blues di Morton. Più di molti musicisti del suo tempo, Morton era acutamente consapevole di cosa fosse importante nella scena musicale. Imparò rapidamente chi fosse importante; si assicurò che la gente sapesse di lui. Come compositore che adesso aveva un considerevole repertorio di musiche proprie - alcune interamente originali, altre rielaborate da fonti diverse - andò alla ricerca di pubblicazione e di protezione dei diritti d’autore. Doveva trovarli con i Melrose Brothers, Lester e Walter, che avevano un negozio di musica affiancato da una casa editrice. Sebbene essi avessero già pubblicato Wolverine Blues, Jelly evidentemente pensava che avessero ancora bisogno di un’opera di persuasione, secondo la descrizione del loro primo incontro con l’allampanato pianista fatta da Lester Melrose. Raccontò di Jelly che avanzava a grandi passi nel negozio con un cappello da cowboy e un fazzoletto rosso attorno al collo. Si presentò a voce alta e si lanciò in una laudatoria descrizione delle proprie gesta e dei propri titoli, non meno importante dei quali era il suo status di “creatore del jazz”. Per concludere la presentazione, Jelly sedette ad un vicino pianoforte e, secondo Melrose, provò praticamente tutto quello che aveva detto al suo affascinato auditorio di due persone. Jelly divenne una figura familiare dalle parti dell’ufficio dei Melrose. Sebbene più tardi pretendesse di avere fatto parte del gruppo di arrangiatori fissi dei fratelli Melrose, si tratta manifestamente di una esagerazione. James Dapogny, in una lettera inviata all’autore di quest’opera, fa notare che mentre non poteva aver creato arrangiamenti per la compagnia, i propri arrangiamenti, come riportati su disco, potevano essere stati la base per creare gli arrangiamenti orchestrali pubblicati dai Melrose di temi di Morton quali Sidewalk Blues, Dead Man Blues, Jelly Roll Blues e altri. Questi erano probabilmente stati messi a punto dal gruppo di arrangiatori dei Melrose come Charles Luke (che scrisse Smoke House Blues), Elmer Schoebel e Mel Stitzel (autore di The Chant). Dapogny fa anche notare dove Jelly usò arrangiamenti preesistenti dei Melrose per alcuni dei propri dischi: The Chant, Black Bottom Stomp, The Pearls eccetera. Essendogli state negate le sue attività alternative di produzione e di guadagno, Jelly registrò dischi tutte le volte che gli fu possibile, usando raramente due volte gli stessi musicisti, il che indicava la natura provvisoria delle cose. Quando le orchestre di Morton avevano un lavoro, si trattava generalmente di un ingaggio per una sola sera in un club locale, o di un giro fuori città. Ebbe una giornata estremamente produttiva alla Gennett, quando furono registrati undici titoli, nove dei quali furono pubblicati; una seduta unica alla Vocalion e tre ai Marsh Laboratories dove era prodotta la rarissima etichetta Autograph. Una di queste sedute di incisione fece incontrare Jelly con il grande King Oliver, in un duetto. Una seduta finale per la Gennett, in cui utilizzò la sua orchestra “di giro”, ebbe come risultato la pubblicazione di una sola facciata. Ancora in un altro genere di lavoro, Jelly realizzò una serie di rulli di pianola, portando la sua musica in case sparse un po’ in tutta l’America dove altrimenti non avrebbe potuto essere ascoltato. Anni dopo, durante le sedute di registrazione con Lomax, Jelly avrebbe espresso la sua filosofia dell’esecuzione jazzistica, un distillato di tutto quello che era passato in precedenza nella sua vita musicale. Che la musica originata a New Orleans gli apparteneva incontestabilmente (dopo tutto, l’aveva inventata lui!); che una traccia di musica spagnola era un condimento essenziale al jazz; che erano ammessi tempi più lenti per un’esecuzione jazzistica più efficace; che riffs (brevi frasi ritmiche ripetute con slancio), breaks (passaggi generalmente di quattro battute in cui suona un solo strumento e il resto del gruppo tace) e il mantenimento della melodia di base erano parti indispensabili del jazz. Erano questi i suoi dogmi. In una dichiarazione che merita di essere citata, affermò che il jazz deve essere “suonato dolcemente, morbidamente...con grande enfasi ritmica”. Dolcemente, perché “devi essere capace di scendere per poter salire. Se un bicchier d’acqua è pieno, non lo puoi riempire di più, ma se hai mezzo bicchiere, hai l’opportunità di metterci dell’altra acqua. La musica jazz è basata sullo stesso principio...”. Omer Simeon, in particolare, ha lasciato delle impressioni rivelatrici dello stile di lavoro di Morton, riferendo che Jelly era pieno di vita alle prove, che erano lunghe ed eseguite con molta cura. Ha aggiunto che Jelly voleva ritrovare soprattutto “quel suono New Orleans, e che se non avesse potuto ottenerlo dai musicisti che aveva scelto, lo avrebbe trovato con qualcun altro”. Simeon aveva proseguito dicendo che gli uomini erano liberi di creare i loro passaggi solistici e di elaborare i propri breaks, uno degli espedienti musicali più cari a Morton. Ma la sua stretta aderenza agli effetti che desiderava di più poteva causare un certo risentimento in qualche altro musicista che avesse la propria filosofia musicale. Ma i tempi stavano cambiando e nuove cose stavano accadendo nella musica. Secondo Simeon era per questo che Jelly trovava tante difficoltà a tenere insieme l’orchestra da un’occasione all’altra. Le numerose sedute Victor che riempirono molti degli anni seguenti di Morton erano salutate con entusiasmo dai compratori di tutta la nazione. La musica era diversa: non era Dixieland, a cui si erano abituati alla metà degli anni Venti; non era solo un gruppo di giovanotti che cercavano di suonare “hot” nei loro strumenti; nemmeno, fossero stati consapevoli dei diversi stili, era il puro jazz di New Orleans come lo si era ascoltato nella città in cui era nato, il che succedeva di rado, semmai comunque ascoltato nei dischi. In effetti quello che stavano ascoltando era, come Orrin Keepnews ha esposto nella sua discussione su Morton nel libro The Jazz Makers, non il jazz di New Orleans, ma il jazz di Jelly Roll Morton... basato sui modelli più vecchi, ma con una ricca complessità, una spettacolarizzazione, una gamma espressiva che andava dalla ruvidezza alla poesia...che riflette quest’uomo e perciò non può essere esattamente duplicata da nessun altro. Quando Morton si spostò sulla costa orientale, registrando nello studio Victor di Camden, nel New Jersey, anche Simeon era là,come clarinettista preferito da Morton. Nel novembre del 1928 Morton utilizzò alcuni degli uomini di Luis Russell, tra i quali Red Allen, J.C. Higginbotham, Albert Nicholas, Pops Foster e Paul Barbarin. Tutti eccetto Higginbotham erano della Louisiana. L’ultima seduta dell’orchestra nell’ottobre del 1930 avrebbe compreso il trombettista Ward Pinkett e il trombonista Geechie Fields, entrambi tra i favoriti di Morton. Sarebbe seguito un lungo periodo di aridità, e Jelly Roll Morton non avrebbe potuto esporre nuovamente su disco le proprie idee fino al momento delle interviste per la Library of Congress. La sua sola seduta di registrazione conosciuta nel corso di quegli anni è con un gruppo di Wingy Manone in cui divide l’onore del pianoforte con Teddy Wilson. I suoi giorni a New York coincisero con i peggiori anni della Depressione e Jelly Roll Morton, che aveva volato alto nell’ultima parte degli anni Venti, si ritrovò in giorni magri. La sua lealtà nei confronti del suo genere di jazz di New Orleans era sopravvissuta al gusto del pubblico per quella musica “di vecchio stampo”. Uomini più giovani con idee più giovani avevano creato un proprio stile, chiamato Swing. Poi, nell’autunno del 1939, vi fu una breve rinascita, parzialmente stimolata dalla pubblicità che circondava le sue registrazioni per la Library of Congress e naturalmente dalla controversia creata attorno alla trasmissione radio di Ripley e dalla lettera che ne era conseguita. Dalla Bluebird venne un’offerta per registrare a New York con un gruppo alla sua altezza, che avrebbe compreso il grande clarinettista e sassofonista di New Orleans Sidney Bechet, il trombettista Sidney De Paris, il contrabbassista Wellman Braud, Albert Nicholas al clarinetto e Zutty Singleton alla batteria. Quando la Bluebird chiuse, una piccola etichetta chiamata General prese il suo posto. Nel dicembre del 1939 e nel gennaio del 1940 vennero registrate due sedute di solo pianoforte e tre con una piccola orchestra, destinate ad essere pubblicate sia dall’etichetta General sia dalla Commodore. Ancora una volta la voce di Jelly che canta ruba quasi la scena, ma una collana di squisiti assoli pianistici innalza l’intera serie ai più alti livelli e, con la loro intimità ed onestà, sembra raccontare, per brevi momenti, quel che Jelly Roll Morton stava pensando. Incapace di far fronte alla forza fisica richiesta per dirigere un’orchestra, decise di vedere ancora una volta la California, col pretesto di prendersi cura di una madrina malaticcia. Lasciando Mabel a New York, con la promessa di mandarle il denaro per il suo biglietto per New Orleans dove pensava sarebbe stata al sicuro, partì per il lungo viaggio in auto nel novembre del 1940. |
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