C'è anche lo swing fatto con i guantoni
di Franco Bergoglio
«Quand'ero ragazzo, tutti volevano boxare, e tutti volevano suonare qualche strumento»
Eugene B. Redmond, poeta blues
Jab, swing, jam. Tre parole e ti trovi alle corde. O sono righe di pentagramma? Il jab può essere un diretto di disturbo, di arresto, di preparazione; oppure un pugno potente. Lo swing nella noble art è un attacco laterale, a traiettoria larga; ma è anche la musica praticata dagli aristocratici come re Goodman, il duca di Ellington e l'imperatrice Bessie. Babe Ruth con il suo swing da fuori campo regnò nel mondo del baseball e insieme a Bix (con l'amica tromba) mise Broadway a soqquadro. Jam invece sta per sfida e divertimento nel jazz, nel baseball pare sia un trucco, mentre a volte il boxer pesta l'avversario fino a ridurlo in jam, marmellata.
Quante possibili suggestioni, tra mazze e mazzate. sventole e note blue ...
Miles Davis, buon pugile dilettante. è stato tra coloro che hanno dato lustro all'incontro tra la boxe e il jazz, incidendo la colonna sonora funky rock per un docufilm sulla vita di Jack Johnson. Come poteva il divino non omaggiare il gigante di Galveston?
Il primo campione dei massimi di colore in un Novecento giovane, il primo eroe afro di popolo. Visi pallidi ansiosi cercavano the great white hope, qualcuno che riuscisse ad annientare Johnson; mentre questi spediva giù dal ring pugili bianchi come birilli, sorridendo con i suoi denti d'oro, in barba alla presunta superiorità razziale. Si fece avanti James Jeffries che si era ritirato imbattuto qualche anno prima. Il match venne ovviamente reclamizzato come scontro etnico. Jeffries diede gas al motore: dichiarò di essere tornato per mostrare che i bianchi erano ancora i più forti. l media stuzzicati da simili dichiarazioni divennero incontinenti. Variety ingaggiò come commentatore dell'incontro il cantante Al Jolson, che anni dopo - ironia della sorte - avrebbe recitato con il nero fumo in faccia in " The Jazz Singer ",il primo film sonoro. Montava l'attesa.
Quando Johnson stese anche Jeffries. i neri si riversarono nelle strade a festeggiare e i bianchi a sfogare la rabbia. Il risultato furono una ventina di morti, quasi tutti di colore, numerosi feriti e svariati tentativi di linciaggio. Johnson guidava macchine sportive, indossava abiti costosi, si arricchiva ... picchiando i bianchi!
All'epoca questo pareva ai più intollerabile. Allorché decise addirittura di sposare una bianca, gli si spalancarono le porte del carcere. Facile verdetto: se dietro lo sport si agitano altri significati il fair play è il primo a eclissarsi, ma il mito ormai era consacrato.
Ha scritto di lui Jerome Charyn, incastonandolo tra le figure centrali di una Broadway rutilante come non mai: «Jack Johnson dal sorriso d'oro, che suonava il contrabbasso, cantava il ragtime con una voce da baritono. raccontava storie, come aveva fatto nelle sue fortunatissime tournée di vaudeville, ( ... ) metteva in scena trucchi di magia e faceva le capriole con le prostitute che aveva sul suo libro paga». Johnson avrebbe chiuso la sua esistenza barricato a Harlem, tra la sua gente, esibendosi mestamente all'esercizio del sacco al ritmo del jazz alla moda.
Negli anni Cinquanta il mito del ghetto si sarebbe incarnato in Sugar Ray Robinson, il più cool di tutti e di sempre: ingioiellato, impellicciato, girava a bordo della sua Cadillac rosa circondato di donne bellissime.
Anch'egli si allenava con il jazz (ma guarda!) e possedeva un nightclub a Harlem dove spesso veniva ingaggiato Charlie Parker. Andò pure in tour con Count Basie, dove al posto di eccitare il pubblico demolendo avversari, mostrava il lato gentile del ballerino e dell'intrattenitore.
Per emulare Sugar Ray, Miles disse basta alla droga. Pure Red Garland, pianista del quintetto di Davis in quegli anni, frequentava le palestre (e le mani? viene spontaneo chiedersi) mentre un altro uomo di tasti, Phineas Newborn jr., compose il brano " Suqar Ray ", omaggio verista nel quale con il suo pianoforte ingaggiava un saltellante scambio ravvicinato di colpi con il batterista Roy Haynes, con un Paul Chambers serafico ad arbitrare.
E visto che ci siamo, perché non dirlo? Molti percussionisti hanno un rapporto speciale con la boxe: alla fin fine si tratta sempre di picchiare delle pelli.
Prendiamo, per esempio, la filosofia di Mark Merella, un giovane batterista forse un tantino fissato con il ring, forse anche lui suonato come i suoi tamburi.. .. «La prossima volta che swinghi con la band pensa a Sugar Ray Robinson. Se sganci una bomba ricordati di Joe Louis. Quando prepari una sventagliata sui toms immagina Joe Frazier».
Joe Frazier. Nel 1971 il combattimento con Muhammad Alì fu definito il match del secolo. Era uno scontro su tutto: il gancio sinistro di Joe contro la danza di Muhammad, tra chi era favorevole alla guerra in Vietnam (il primo) e chi come obiettore di coscienza era finito in carcere per essersi rifiutato di partire soldato (il secondo). La leggenda narra che sul ring - ovviamente al Madison Square Garden- i due si scambiassero queste battute, scintillanti come un duetto di trombe: «Tu lo sai, sei sul ring con dio», disse Alì. E Frazier, rapido: «Se tu sei dio, stasera hai sbagliato posto».
Qualche anno dopo su Alì And Frazier, un brano da jam di Basie, Clark Terry e Dizzy Gillespie avrebbero mimato questo dialogo da par loro. Molti musicisti erano in città la sera dell'incontro.Il critico Dan Morgenstern ricorda che per festeggiare il campione si tennero contemporaneamente ben due party; in quello ufficiale suonava l'orchestra di Ellington, nell'altro le big band di Basie e Buddy Rich. «Due campioni circondati da ottimi secondi e assistenti all'angolo», puntualizza Dan. L'incontro diede ragione a Frazier che vinse ai punti, ma Alì ebbe il suo riscatto. Risalì la china, ottenne la rivincita, lo sconfisse e tornò immediatamente l'eroe di neri e ribelli. Purtroppo il titolo era scivolato nelle mani di George Foreman. Un altro gigante nero, giovane e freddo, un altro peso massimo sensibile alla musica, se dobbiamo dar credito a un suo amareggiato commento: «Il pugilato è come il jazz: più è buono e meno la gente l'apprezza».
Una nuova cucina di ottimi ingredienti era pronta per il gran circo: Foreman, giovane coolster dotato di una tecnica raffinata contro Ali, stagionato soul brother, retorica da predicatore nelle interviste fuori campo e sgusciante furbizia sul quadrato.
Derby in casa: jazz contro soul, musica nera di ieri e di oggi. Il luogo simbolo, tra storia e mito, è Kinshasa, Africa 1974.
Rabbia e risveglio del continente nero, riscatto per i popoli oppressi.
Foreman picchia Alì per più riprese, con scienza ed energia, ma poi Muhammad piazza il riff giusto, un funky cazzotto semplice e diretto che vale il K.O. Leon Gast volato là per documentare finì per tirarci fuori il film " Quando eravamo re " . Tra le stelle invitate a suonare per il match del black pride dominava James Brown, il Muhammad del palco: energia, fisicità, erotismo... A detta dello stesso Brown, nella sua giovinezza di bullo da ghetto era stato un discreto peso leggero. Buttato giù duro si era dato al baseball dove infortunatosi malamente gli era rimasta solo la voce. E certamente James la usò bene, perché sapeva che per far fortuna non gli sarebbe servita l'università o il fiuto negli affari.
In molti hanno iniziato da pugili prima di realizza re quanto fosse più desiderabile suonare che essere suonati, come Jimmy McCracklin: dai guantoni al microfono per cantare il rhythm'n'blues.
Sport e musica, da sempre veicoli di avanzamento sociale per gli americani di colore. O dovremmo pensare a mezzi di... scardinamento? Ben prima che l'afroamericano Jackie Robinson riuscisse, nel 1947, a giocare nella major league - tutta bianca - di baseball, i musicisti lavoravano insieme in band integrate e pugili di razze diverse se le suonavano ormai da anni. Certo gli incontri generano i miti razziali, gli odi e la competizione. «l pugili bianchi sono più forti dei neri, gli italiani degli irlandesi. Solo i neri sanno suonare il blues. Il jazz è roba da bordello». Sembra una strettoia svelta a intasarsi: da rivalità etnica e sociale, culturale o economica si approda facilmente a deleterie teorie sul la superiorità razziale. Eppure il melting pot che ha arginato questo meccanismo infernale è senza dubbio l'incontro: con trombe, sassofoni o guantoni, ma pur sempre scontro-incontro. Combattimento o gara di bravura. Alla fine scatta un meccanismo e dal confronto nasce il riconoscimento: si posa lo strumento, ci si asciuga con il fazzoletto e ci si abbraccia.
Si scende dal quadrato, si sputa il paradenti, si mette l'accappatoio e anche lì ci si abbraccia.
Leggende di musica e boxe. Davvero tante, a pensarci. Il concerto del quintetto bop all stars riunito alla Massey Hall di Toronto il 15 maggio 1953 era stato incautamente programmato in concomitanza con la diretta dell'attesissima finale per il titolo mondiale dei massimi tra Rocky Marciano e Jersey Joe Walcott. La performance canadese vedeva invece impegnati Charles Mingus, Dizzie Gillespie, Bud Powell, Max Roach e Charlie Parker. L'apoteosi del bebop.
Ma la sala era semi-vuota e i musicisti avrebbero preferito assistere al match che suonare. Metà di loro erano ubriachi.
Risultato: Marciano a Chicago conserva il titolo e i cinque a Toronto si conquistano il loro. E via, tutti nella storia.
Un jazzista in particolare, durante la sua lunga carriera, sostò spessissimo a bordo ring: Count Basie. In Good Morning Blues: l'autobiografia (recentemente tradotta da Minimum fax), numerosi ricordi del pianista affiorano dal passato intrecciati alle date di match celebri. Al Conte non sfuggiva il parallelo tra vita in concerto e pugilato: sempre incontri, un palcoscenico per ring e poi sfide continue e una posta da rimettere in gioco, sera dopo sera.
Quando una band perdeva scendeva in fretta dal palco e lasciava la città. La borsa della gara consisteva nel salvare il buon nome dell'orchestra per guadagnarsi ulteriori ingaggi. Basie confessa anche di aver dato un forfait quando era alle prime armi, fingendosi ubriaco per non affrontare un pianista più veloce di lui. Sono situazioni dove non puoi perdere né il gioco né la faccia: solo un trucco ti può salvare.
Quando due swing band si incrociavano in una sala dove erano scritturate entrambe dovevano duellare, pubblico e organizzatori se lo aspettavano.
In "Good Morning Blues" Basie evoca i celebri match con Lionel Hampton, Lucky Millinder, Bennie Moten. Spicca la cronaca di uno di quesi episodi, ripresa dai giornali dell'epoca.
Come una qualsiasi sfida sportiva, venne annunciata per tempo, gli esperti pronosticavano mentre i protagonisti smargiassavano in giro che avrebbero demolito l'avversario. Pubblicità.
Chick Webb, il batterista swing del momento, con in organico una giovane Ella Fitzgerald, dominava alla Savoy Ballroom di New York quando vi passò la band di Basie. Ecco la concitata «diretta» dell'evento, disputatosi di fronte a ben 3000 paganti: «Nel corso dell'incontro Chick ha attaccato, mentre il Conte ha bordeggiato a suo agio... Per nulla smarrito di fronte alla percussione incalzante di Chick, che ha strappato al pubblico grida d'incoraggiamento ed entusiasmo e ha sparso sull'ottone dei piatti il sudore della propria fronte, il conte ha mantenuto il suo atteggiamento composto e sicuro. Non ha mai mancato di parare i possenti colpi di Chick con scale e arpeggi insinuanti, che hanno eccitato sempre più la violenza dell'avversario».
Si tratta di un classico: la giovane orchestra di Basie- sfidante- si muove guardinga, con la difesa chiusa; Webb, che gioca in casa con il pubblico a favore, attacca spavaldo. Ma, alla fine, chi vinse? Scrive un altro giornalista: «Da dove ci trovavamo, Basie ci è apparso, pur di poco, il vincitore». Ma al Savoy Webb non può perdere e una vittoria ai punti vale poco. Bisognerebbe ripetere l'incontro, suggerisce qualcun altro, fuori New York, in campo neutro: «Solo allora sarà possibile legittimamente posare la corona di re dello swing sul capo di Basie o di Webb». Tempi arcaici e perduti di un jazz i cui re si incoronavano in battaglia e si suonava in sale dove dominavano intensi i profumi di sigaro, di sudore, di vapori alcolici.
Anni d'oro anche per il pugilato: miele per nobili, gangster, e intellettuali con le loro corti dei miracoli. Questi personaggi sono gli stessi che impazziscono per il jazz, che amano vivere sul filo. Sono due facce dello stesso dollaro: avere successo e arrivare in cima o fallire e cadere. Oppure si possono percorrere nella stessa vita entrambe le strade e questo intriga sempre qualche regista di Hollywood. Non a caso -ma a un altro livello- il saggista e sociologo Gerald Early e il cineasta Ken Burns hanno unito le forze per tre fortunati documentari con nell'ordine i seguenti soggetti: Jack Johnson, il baseball e il jazz. Sport e musica, ascesa impetuosa degli Stati Uniti e individualismo. Temi fantastici per quadrare il cerchio: l'analisi sociologica scolara nel mito, la vita nell'arte e il tutto si salda in una narrazione implacabile.
Norman Mailer- che aveva fiutato il cruciale nesso - per nulla al mondo si sarebbe perso un bordo ring, tanto da spingersi fino a Kinshasa per commentare in diretta Alì-Foreman. Mailer apparteneva a quella categoria di scrittori hip che si muoveva disinvoltamente tra il ring e il tirar notte a bere in un jazz club; per riversare magari tutto il mattino dopo in qualche sanguigno scritto dei suoi. |