Alla ricerca del Disco Perduto
di Vittorio Castelli
A parte ovvie considerazioni sulla superiorità qualitativa e quantitativa dell’informazione musicale contenuta in una registrazione sonora rispetto alla notazione scritta, incapace per natura di trasmettere le sfumature tecniche e emotive di una performance, nei casi in cui la scrittura musicale non esiste o costituisce soltanto uno spunto iniziale della creazione musicale, il documento sonoro diventa naturalmente l’unico possibile punto di riferimento.
Questo è vero in genere per tutta la musica folkloristica e, fra le musiche d’autore, sopratutto per il jazz.
Per non valicare i confini della mia esperienza personale, in questo mio intervento mi limiterò proprio al jazz, ai rapporti fra cultori di jazz e disco.
In poco meno di un secolo di registrazioni di jazz, è stata prodotta una quantità enorme di materiale, di cui solo una piccola parte con scopi commerciali, ovvero finalizzata alla pubblicazione. E’ sopratutto dalla parte “sommersa” di questa produzione, di cui nessuno può valutare l’entità, che la documentazione del passato jazzistico viene costantemente aggiornata. Negli ultimi cinquant’anni la disponibilità di dischi registrati “dal vivo”, purtroppo spesso con mezzi amatoriali e di fortuna è andata sempre più aumentando.
Se, a dispetto dell’importanza musicale musicale dei reperti, davvero variabilissima, e la qualità tecnica non di rado “abissale”, l’importanza di queste operazioni di ricerca di “tesori nascosti” è più che rilevante, non dobbiamo trascurare un aspetto ancora più fondamentale dell’attività discografica: la documentazione il più possibile dettagliata di tutte quelle montagne di dischi pubblicati in quasi cent’anni di jazz, insostituibile fonte di cultura per tutti noi appassionati.
Ecco quindi entrare in gioco il collezionista. Chi più chi meno, tutti gli appassionati di jazz sono in qualche misura collezionisti, con la vistosa eccezione dei musicisti che ben raramente hanno qualche affezione per l’”oggetto disco” e che spesso hanno idee confuse perfino sulla propria produzione.
Il collezionista “puro” è un signore che persegue uno scopo ben preciso: mettere le mani su TUTTI i dischi di uno o più musicisti, di uno o più periodi storici, a volte persino di una o più etichette discografiche o, addirittura, delle copertine opera di un certo grafico (il collezionista “totale” è inverosimile: dovrebbe essere “troppo” ricco per diventarlo). Da principio vengono ricercati semplicemente i documenti sonori. Quasi inevitabilmente si finisce col volere soltanto le edizioni “originali”. Oltre certi limiti la ricerca può diventare fine a se stessa e l’ascolto passa in secondo piano fino, a volte, sparire del tutto. E’ ovvio che un collezionista in questo stadio, che colleziona musica senza interesse musicale ma solo per sete di possesso, non condividerà in nessun modo i sui “tesori” che, troppo spesso, alla sua morte finiranno completamente dispersi, senza aver nulla fruttato neppure in precedenza. Questi sono collezionisti socialmente inutili. Anzi dannosi, perché sottraggono molti dischi alla normale circolazione e raggiungendo punte di fanatismo eccessive contribuiscono a un ingiustificato lievitare dei prezzi.
Altri invece, per fortuna, sono più interessati al messaggio musicale. La loro ricerca non sarà mai del tutto inutile. Come minimo sarà servita, prima che la collezione vada dispersa come le precedenti (inevitabile?), a dar loro del piacere specificamente musicale, che poi è il vero scopo per cui quelle registrazioni furono realizzate.
Non solo: a differenza del collezionista egoista e quindi geloso, chi ama la musica ama anche farla ascoltare agli altri. Nei casi più eclatanti questi appassionati raccoglitori di fonogrammi arrivano a organizzare la diffusione del “messaggio” producendo essi stessi riedizioni in tiratura più o meno “limitata”, mettendosi d’accordo con produttori discografici già attivi, o addirittura diventando tali essi stessi.
L’industria discografica “ufficiale” nella maggior parte dei casi ha bollato queste operazioni come “pirateria”, fingendo di ignorare che nella maggior parte dei casi esse nascono da una precisa richiesta del mercato che essi non sanno né interpretare né gestire.
Quello che essi non dicono però, è che, poiché essi stessi ignorano cosa si trova nei loro archivi, comunque spesso e volentieri lacunosi, sarebbe praticamente impossibile per loro produrre “legalmente” molte di quelle riedizioni senza attingere alle fonti “pirate”.
Più antico è il materiale e meno è reperibile. Nel caso della produzione degli anni Venti poi, bisogna anche dire che molte aziende discografiche chiusero i battenti nella grande depressione iniziata nel 1929 col crollo di Wall Street e che ben pochi archivi sono sopravvissuti. Se molte di quelle incisioni sono oggi disponibili è dovuto sopratutto all’appassionato impegno di collezionisti “privati”.
Una storia esemplare:
Nel 1944 il collezionista Dick Rieber trovò menzionato in una pubblicazione di vent’anni prima un 78 giri a lui del tutto ignoto: il mitico Gennett 5275 di Joe King Oliver (1923) con l’accoppiata “Zulu’s Ball” e “Working Man Blues” e ne scrisse in “Jazz Information Magazine”. Dopo poco Monte Ballou di Portland, Oregon, in una polverosa pila di dischi nel retrobottega di un rigattiere, immagino (non sono fantasie poetiche. Spesso le cose andavano proprio così) ne trovò l’unica copia tuttora nota . Non so come, qualcuno riuscì a farselo trascrivere, male, su acetato, da cui poi derivarono un 78 giri a tiratura limitata per collezionisti, e quindi un LP. Nel 1974 Ballou vendette il prezioso cimelio a Robert Altschuler che a sua volta lo cedette a Bernard Klatzko che ne fece un nuovo riversamento, non malvagio questa volta, e lo pubblicò in un album della sua etichetta Herwin.
L’operazione avrà anche avuto risvolti commerciali ma resta una vera storia di collezionisti. Quale discografico “vero” si darebbe tanto da fare?
Ancora un’altra storia: George Avakian, che nel dopoguerra, con inesauribile entusiasmo collezionistico aveva recuperato dagli archivi una manciata di matrici inedite degli Hot Five di Armstrong, nel 1996 si accinse a curare la riedizione in CD del celebre album LP “Louis Armstrong Plays W. C. Handy” che egli stesso aveva prodotto nel 1954. Con orrore scoprì che il nastro originale era misteriosamente sparito dall’archivio Columbia. Dopo un attimo di panico chi venne finalmente in aiuto? Un collezionista incallito naturalmente. Tale Jack Bradley fornì la copia, più o meno intonsa, della prima edizione dell’ LP che venne debitamente registrata, digitalizzata e pubblicata.
Per la verità quella volta le cose non andarono così bene: a parte un difetto di masterizzazione che rovina sensibilmente l’assolo di trombone di “Long Gone”, la naturale smemoratezza senile di Avakian giocò un brutto scherzo. Era successo che quando l’LP era uscito, esso conteneva un brutto errore di editing all’inizio dell’assolo di clarinetto di “Atlanta Blues”. Non appena esso fu scoperto la Columbia procedette a un nuova edizione corretta. Cose che succedono, spesso all’insaputa del pubblico. Dimentico di questo piccolo dramma ormai antico, con la sua meticolosa ricerca di una “primissima” stampa, così ben descritta nelle note del CD, ha semplicemente restaurato l’errore originale. Meglio avrebbe fatto a usare una di quelle “seconde edizioni” che aveva subito trovato e scartato!
Le interferenze fra il mondo dei collezionisti e quello dei discografici non si limita naturalmente a pochi casi che potrebbero in fondo anche restare eccezionali. Il problema è che i discografici sono essenzialmente commercianti e come tali non hanno memoria storica. Va a finire che ripubblicano sempre le stesse cose. Avendo lavorato a lungo in una importante azienda italiana del ramo lo so per esperienza diretta. Quello che manca, e che invece ogni direttore di marketing farebbe bene a avere sempre sotto mano, è un catalogo completo del materiale disponibile. Non semplici liste ma documenti a incrocio con tutto ciò che serve: titoli, autori, esecutori, date, numeri di catalogo. Insomma quel prezioso strumento noto col nome “discografia”. E quando si parla di discografia credo che nessuno ne sappia più dei jazzofili.
Il discografo naturalmente deve essere giocoforza un collezionista. Il concetto stesso di discografia è impregnato di collezionismo. E’ attraverso lo sforzo congiunto di generazioni di cultori “fanatici” che migliaia di dati sono stati ammassati, per la maggior parte senza l’aiuto di “data-base”, ma ciononostante organizzati in modo più che gestibile.
Oltre che da un desiderio, se vogliamo anche esibizionistico, di “passare” informazioni, la discografia nasce da un bisogno del collezionista di mettere ordine nella propria collezione. Per questo anche se non tutti i collezionisti diventano discografi, tutti i grandi discografi sono collezionisti. E’ solo attraverso il continuo confronto fra disco in “carne e ossa” e l’informazione scritta che si eliminano errori e si colmano lacune.
Benché il desiderio di documentare la giungla dei dischi in circolazione, e ancor più di quelli che furono in circolazione, sia stato presente nel mondo degli “aficionados” del disco fin da principio, credo che il contributo determinante sia stato dato nel dopoguerra, e soprattutto in Europa. Nel 1950 in Inghilterra, si cominciò la pubblicazione di “Jazz Directory”, una discografia omnicomprensiva compilata da Dave Carey e Albert J. McCarthy, ordinata in ordine alfabetico di esecutori (band leader). Dopo sei volumi esemplari, arrivato alla lettera “L”, il progetto si interruppe.
Il testimone fu raccolto sempre in Inghilterra da Brian Rust che nel 1961 dedicò un volume a “tutto” il jazz fino al 1931, cui seguì un secondo tomo relativo al periodo 1932-1942. Nelle edizioni successive le due parti furono integrate e la divisione in volumi (due, ciascuno delle dimensioni di un sostanzioso dizionario) avvenne alfabeticamente (A-K / K-Z).
Il compito di documentare gli anni successivi fu assunto nel 1966 da “Jazz Records (1942-1965) (la seconda data avanzava man mano che negli anni uscivano tutti gli undici volumi) del danese Jorgen Grunnet Jepsen.
Insieme le due opere costituiscono il maggior sforzo mai intrapreso nel campo delle discografie generali. In tempi successivi esse sono state integrate, con deplorevole scarsità di rifiniture - a parte naturalmente l’encomiabile opera di aggiornamento degli anni coperti - dal belga Walter Bruyninckx e dal canadese Tom Lord.
A fianco di queste opere monumentali, non si contano poi le discografie monografiche che sopratutto nel caso di musicisti prolifici (Armstrong, Ellington, Parker, ecc.) raggiungono spesso gradi di complessità straordinari.
Il ferratissimo gruppo dei collezionisti inglesi ha spaziato a tutto campo e con successo.
Punte dell’iceberg sono stati il trombonista Chris Barber, uno dei primi e più noti revivalist d’Europa, ferratissimo conoscitore degli aspetti anche più remoti della discografia “tradizionale”, Laurie Wright che ha edito per trent’anni “Storyville”, particolarmente dedita a “fare le pulci” alla discografia di Rust, correggendo, aggiungendo, aggiornando. Dopo 162 numeri, una mole incalcolabile di notizie e notiziole, pane quotidiano dei collezionisti di tutto il mondo, la rivista chiuse i battenti nel 1995 rendendosi conto di aver praticamente esaurito l’argomento. Musicista e collezionista di primo piano, John R.T. Davies è diventato al di la di ogni dubbio il più abile e geniale restauratore di incisioni antiche.
E in Italia?
Prima della guerra il collezionismo era impresa piuttosto difficile ma non impossibile. Ancora si ricorda un appassionato torinese (poi presidente dell’Hot Club Torino) Alfredo Antonino che fu strumento essenziale nel portare Louis Armstrong a Torino nel 1934. Nei trent’anni successivi quasi tutti coloro che hanno fatto cose importanti per il jazz in Italia, vengono dal mondo del collezionismo.
Appassionati “cercadischi” erano Gianfranco Madini che pubblicò il primo numero di “Ritmo” nel 1944 quando ancora su Milano cadevano le bombe, Giancarlo Testoni, Arrigo Polillo, Giuseppe Barazzetta e gli altri del gruppo “Musica Jazz” che cominciò le pubblicazioni pochissimo più tardi.
Negli anni Cinquanta Gianni Tollara, ferratissimo cultore di “Mainstream”, cominciò a “collezionare” anche amicizie fra i musicisti americani, raccogliendo di prima mano testimonianze, ricordi, notizie e giudizi, materiale preziosissimo per autori di articoli libri e discografie. Particolarmente efficiente, attorno a Tollara, il gruppo dei collezionisti ellingtoniani: Luigi Sanfilippo a Palermo, Luciano Massagli, Gian Maria Volonté e Liborio Pusateri a Milano. Tutti insieme e con ruoli diversi hanno contribuito alla creazione del monumentale “Duke Ellington Story On Records” (DESOR).
Alessandro Protti, appassionatissimo cultore di jazz “classico” (Armstrong, Oliver, Bechet, Dodds, Morton ecc.) si è invece dapprima dedicato alla produzione di incisioni discografica di jazz band revivalist, e quindi alla riedizione di materiale discografico “storico”. Pioniere in questo campo è stato un collezionista cosentino Raffaele Borretti, che oltre a produrre una sua etichetta, la FDC, apecializzata sopratutto in materiale “alternativo” (registrazioni radiofoniche, V-disc e concerti) ha contribuito molto, come d’altra parte Protti, a rendere disponibile registrazioni di jazz a diverse case discografiche che, come nel caso della SAAR di Walter Gurtler, hanno diffuso moltissimo questo materiale in tutto il Mondo, mentre parallelamente, altre etichette come Durium e Ariston sempre con la collaborazione di “privati” hanno svolto opera analoga con incisioni del dopogerra, BeBop e oltre.
Adriano Mazzoletti, ben nota personalità radiofonica che per decenni ha avuto un ruolo essenziale nel diffondere in italia una cultura jazzistica è anche accanito collezionista e ricercatore di jazz italiano e oltre anumerose pubblicazioni, fra cui i recenti volumi “Il Jazz in Italia” dell’editore EDT, cura la dettagliatissima serie di CD “Jazz in Italy” della Riviera Jazz Records.
E poi ci sono tanti storici collezionisti che in silenzio, senza quasi mai apparire, hanno messo assieme poderose documentazioni di grande aiuto per chi ha invece pensato di “passare all’azione” produttiva. I primi che mi vengono in mente sono Anselmo Boldrini, Eugenio Bomprini, e Luigi Martini. Ma chissà quanti altri aspettano nell’ombra…
A questo punto non posso tacere del mio contributo personale. Dopo anni nell’industria discografica “ufficiale”, solo o in compagnia di amici collezionisti come Gigi DeLeo, Liborio Pusateri, Ted Kaleveld ho contribuito alla realizzazione di moltissimi dischi e diverse etichette come Raretone, Queen-disc, Jazz & Jazz, Two Flats disc ecc..., recuperando e pubblicando materiale assai raro da King Oliver a Miles Davis.
Avendo vissuto di persona una fetta rilevante di questa storia credo quindi di poter affermare che, anche se imprese di questo tipo hanno qualche ovvio risvolto economico, la molla che ci spinse all’azione furono il desiderio collezionistico unito alla rabbia che provammo quando ci rendemmo conto che i discografici non pubblicavano quello che secondo noi avrebbero dovuto. Allora, se “loro” non volevano pubblicare TUTTI i pezzi di Bix Beiderbecke, alternate take compresi, DOVEVAMO NOI far qualcosa per rimediare. I nostri dischi ce li saremmo fatti da soli!
|