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Coleman Hawkins
Era un gigante del jazz dall’aspetto incongruo. Incontrandolo per la strada, avreste potuto pensare che fosse un avvocato, un medico, un banchiere. Non era particolarmente alto, un metro e settantatrè, ma sembrava solido e lo era. Aveva modi riservati, la voce gradevolmente bassa, uno sguardo che rivelava attenzione per il mondo e una vivida curiosità per quello che lo circondava. Ciò nondimeno, resta nella storia del jazz fra i tre o quattro musicisti più influenti d’ogni tempo. La fama di Hawkins non rimane viva solo per la sua abilità strumentale, ma anche per aver fatto entrare nell’uso abituale il sassofono tenore. Lo fece diventare la voce più popolare ed espressiva di un’orchestra. Prima di Coleman Hawkins i sassofoni erano visti come strumenti buoni per la musica leggera o per il teatro di varietà, una specie di bastardo insomma, dai musicisti seri. Le ance applicate a qualunque cosa che non fosse un legno, come i clarinetti, gli oboi e i fagotti, erano guardate con disprezzo, adatte magari alle parate, ma non certo all’orchestra. Con l’emergere di popolari attrazioni teatrali come i Six Brown Brothers, una formazione che usava nei proprio spettacoli l’intera famiglia dei sassofoni, lo strumento si fece conoscere dal pubblico, ma i preferiti erano il contralto e il soprano e, un po’ meno, il contralto in do, chiamato C-melody sax, che aveva un’intonazione più facile. Il tenore, che si trova tra gli strumenti “melodici” estesi verso l’acuto e i modelli di suono più grave (sassofoni baritono e basso), era la “pecora nera” della famiglia. Nel jazz,all’inizio degli anni Venti, non si conosceva che un pugno di musicisti che vi si dedicassero. Il giovane Hawkins ascoltò di persona Stump Evans, di Kansas City, Prince Robinson dell’Ohio e Happy Cauldwell di Chicago, o almeno ne sentì parlare. Anni dopo, avrebbe negato l’opinione che fosse stato lui a “scoprire” il sassofono tenore, ma, se costretto, avrebbe ammesso d’aver avuto un certo ruolo nel farlo diventare popolare. Nel corso della sua vita, non è stato scritto molto sugli inizi di Hawkins. Senza dubbio questo va in parte ascritto alla sua naturale riservatezza, ma per l’altra parte ciò dipese certamente dal suo desiderio di mantenere un’immagine giovanile. Sono stati ben pochi i jazzisti che hanno resistito con la stessa aggressività all’invecchiamento; il suo sviluppo musicale esteso quasi per mezzo secolo mostra fino a che punto ci fosse riuscito. Coleman Hawkins – che nella maturità molti chiamavano “Bean”(fagiolo) – era nato a St .Joseph, una città della parte occidentale del Missouri, circa cinquanta miglia a nord di Kansas City. I suoi genitori, un elettricista e un insegnante, godevano di un buon tenore di vita medio borghese. Entrambi incoraggiavano il profondo interesse per la musica del figlio, che iniziò a prendere lezioni di pianoforte a cinque anni. A sette studiava violoncello, e per il nono compleanno gli fu regalato il sassofono tenore che aveva chiesto. Secondo quanto raccontò in alcune interviste, usava il rasoio del padre a dieci anni, e due anni dopo portava i baffi. Non c’e nessuna ragione per dubitare della sua precoce maturità, dato che, affinché potesse avere le migliore opportunità, gli fu permesso di andare a Chicago, dove visse per qualche tempo presso alcuni amici di famiglia. Nel 1920, il sedicenne Hawkins suonava il sassofono a Kansas City in un’orchestra che accompagnava le proiezioni cinematografiche. Notato dalla pionieristica artista discografica Mamie Smith, entrò a far parte del complesso che l’accompagnava, i Jazz Hounds. In quell’orchestra’era anche un dotato suonatore di cornetta che si chiamava Joe Smith, che aveva gà fatto esperienza a New York. Fu senza dubbio Smith che persuase Hawkins a lasciare i Jazz Hounds mentre si trovavano a New York nel 1923 dopo una lunga serie di tournèe. Affidato a sé stesso, Hawkins si assicurò abbastanza lavoro per tirare avanti,e cominciò quello che sarebbe diventato un passatempo destinato ad accompagnarlo per quasi tutta la vita: ingaggiare con musicisti rivali quelli che si chiamavano “cutting contest”, una sorta di “battaglia” tra musicisti in cui la vittoria era decretata dall’intensità degli applausi del pubblico. Profondamente competitivo, egli era sempre pronto a dare battaglia per provare la propria maestria. Molto più avanti nella sua vita, commentò con un intervistatore: “vede, ho sempre voluto essere ascoltato”. La storia riporta che soddisfò quel desiderio. Mentre era impegnato con altri in una “jam session”, a scambiarsi cioè giri di improvvisazione solo per il proprio piacere, fu ascoltato da Fletcher Henderson, e divenne uno dei soci fondatori di quella grande orchestra, essendovi entrato proprio in occasione del loro primo ingaggio al Club Alabam. Sebbene la band fosse assolutamente adeguata ai tempi, di jazz ce n’era poco. Ci sarebbero voluti parecchi anni prima che la permanenza di un anno di Louis Armstrong e la maturazione di Don Redman nel ruolo di arrangiatore generassero una serie rivale per le notissime orchestre bianche della città. I dischi, fortunatamente molto numerosi, raccontano quella storia. L’incisione fatta dall’orchestra nel 1926 di The Stampede, un brano accreditato ad Henderson che si suppone però fosse stato scritto da Waller, fu una pietra miliare. Mostra come Hawkins avesse già superato la concitata tecnica primitiva dello strumento suonato “a colpi di lingua “, in favore di uno stile basato su uno scorrevole legato con un’autentica sonorità di tenore. È uno dei primi dischi che indichi nuove strade al sassofono tenore. In un’orchestra ricca di stelle come quella di Henderson, Hawkins era tanto stimato da avere la possibilità di esprimersi in assolo in ogni seduta d’incisione, quasi in ogni brano. Sarebbe rimasto con Henderson più a lungo d’ogni altro componente originale dell’orchestra, e se ne andò solo quando nel 1934 gli fu offerto di andare in Europa. Lungo la strada, sarebbe stato coinvolto in un gran numero di registrazioni con altre orchestre. In Whenever There’s A Will, con i McKinney Cotton Pickers, mostra chiaramente il suo tipico stile in tempo veloce, cascate di note distribuite sul tempo di base, con un effetto “sbuffante” che suggerisce l’immagine di un motore lanciato a tutto vapore. Un’orchestra mista, i Mound City Blue Blowers, in cui tra gli altri c’erano Glenn Miller, Pee Wee Russell e Gene Krupa, registrò un paio di autentici classici nel novembre del 1929: Hello Lola e One Hour. Nel secondo, si ascolta Hawkins nella sua prima grande prova discografica su una ballad, dove rielabora la melodia lasciando intatta l’integrità armonica del brano. Hello Lola è un esempio della assoluta flessibilità di Hawkins. In un assolo lungo due ritornelli che segue il segmento di Pee Wee Russell, si cala con estrema facilità nello stile jazzistico, “hot”, bianco di Chicago e scatena un torrente di note, di suoni incisivi e di accenti in controtempo che avrebbero fatto onore agli idoli di Chicago Frank Teschemaker o Bud Freeman. Poi, ancora maggiore, estendendo le idee melodiche anche al di là delle divisioni naturali delle battute e costruendo una esecuzione praticamente ininterrotta. Essendo uno dei musicisti di jazz registrati con maggior frequenza, nonostante i cinque anni di lontananza dalla propria patria durante uno dei periodi più importanti della sua vita, non è difficile seguire la via del suo sviluppo. Con Henderson, registrazioni come Talk Of The Town e I’ve Got To Sing A Torch Song non sono che due delle prove di enorme maestria che contribuirono alla sua fama. Con il trombettista Red Allen (altro audace sperimentatore) come condirettore, Hawkins anticipò l’età dello swing tramite la sua strepitosa capacità di afferrare lo slancio della musica in Jamaica Shout. Poco prima di partire per l’Europa nel marzo del 1934, collaborò con pianista Buck Washinton per alcuni duetti realizzati tramite John Hammond per essere pubblicati in Gran Bretagna, producendo il delizioso I Ain’t Got Nobody e un pezzo scritto dallo stesso Hawkins, il bellissimo He Sends Me. Il viaggio all’estero, che secondo Hawkins non avrebbe dovuto comportare più di qualche settimana di assenza dall’orchestra di Henderson,si trasformò in un soggiorno di cinque anni. In Europa passò un periodo felice circondato da ascoltatori che adoravano lui e il suo lavoro, e poté approfittare di ingaggi stabili in Gran Bretagna e in molti paesi dell’Europa continentale, dove trovò una sufficiente quantità di musicisti americani espatriati da rendere l’esperienza davvero interessante. Ad Amsterdam, duettò con il pianista di Harlem Freddy Johnson al Negro Palace. A Parigi, nel 1937, contribuì ad inaugurare la nuova etichetta discografica Swing con una formazione che vantava il suo vecchio collega dell’orchestra di Henderson Benny Carter e la formidabile coppia Django Reinhardt e Stephane Grappelli, che per l’occasione suonò il pianoforte. Nei primi tempi della permanenza europea, fu programmata la sua partecipazione ad una tournèe con la band di Louis Armstrong in Gran Bretagna e altrove, ma per ragioni mai spiegate questa non ebbe mai luogo. Invece, Hawkins ebbe una scrittura da stella con un’orchestra diretta dalla moglie del maestro inglese Jack Hylton. In Olanda, suonò e registrò con un’orchestra swing locale, The Ramblers, e viaggiò dalla Svizzera alla Scandinavia. Nell’aprile del 1939, stava nuovamente girando in Inghilterra, e ritornò a casa proprio qualche settimana prima dello scoppio della guerra. Mentre era stato via, nel mondo del jazz erano successe tante cose. L’età dello swing era ufficialmente cominciata e le orchestre spuntavano dappertutto come funghi. A New York il centro del jazz si era spostato da Harlem alla Cinquantaduesima strada, e nuovi club apparivano nel centralissimo Greenwich Village. Per un musicista come Hawkins era di particolare importanza l’apparizione improvvisa di un gran numero di sassofonisti tenore. Molti di loro erano suoi discepoli, e c’era lavoro per tutti; cosi, come un monarca assente da lungo tempo che torna per scoprire che gli hanno usurpato il trono, Hawkins si mosse in fretta per ristabilire il proprio dominio. Dopo aver rinviato il progetto di formare una big band, debuttò alla Kelly’s Stable, un club ai bordi della “Strada dello swing”, com’era chiamata la Cinquantaduesima. L’orchestra era di nove musicisti. Non molto tempo dopo, Hawkins fu contattato dal dirigente della Victor Leonard Joy che gli propose di incidere Body And Soul, in un certo modo imbrogliandogli le carte , perché quel brano, sebbene fosse una bella ballad, per Hawkins non rappresentava che un semplice tema da usare come esercizio per riscaldarsi e come base per lunghe improvvisazioni quando il club aveva già chiuso per la notte. Joy, trovando qualcosa di unico nel modo in cui Hawkins affrontava quel tema, insistette, e l’11 ottobre 1939 questo fu inciso per ultimo in una serie di quattro brani. Gene Rodgers al pianoforte tiene la scena per quattro battute, poi Hawkins, quasi attenuato nel suono, offre una serie quasi letterale di citazioni d’apertura, poi abbandona rapidamente l’esplicita melodia originale per iniziare lo schema improvvisativo che segna il resto delle sessantaquattro battute del disco, esclusi solo i brevi arpeggi che formano la coda. Accompagnato solo dalla sezione ritmica, il sassofonista affronta a tempo piuttosto tranquillo l’intero primo chorus in una serie di strutture accordali, non facendo che qualche raro accenno alla melodia di Johnny Green, ma restando fedele allo spirito della composizione. Quando inizia il secondo ed ultimo chorus, l’intera orchestra si unisce a lui suonando con discrezione accordi quasi organistici lasciati cadere nell’elaborazione del secondo tema della canzone (la sezione chiamata in inglese bridge, ponte), mentre il sassofono riprendere il dominio del brano nelle ultime otto battute. Hawkins, in questo chorus conclusivo, si allontana ancora di piu dalla melodia, talvolta raddoppiando la velocità della sua avventurosa esplorazione, talaltra arrampicandosi nel registro più acuto per esprimere i momenti più appassionati. La meraviglia di tutto ciò consiste nel modo quasi palpabile in cui l’ascoltatore percepisce i procedimenti mentali di Hawkins, quel flusso di idee apparentemente prodotto da un’ispirazione immediata che la ragione vorrebbe definire prepianificato. Ma, per quanto logiche siano le improvvisazioni, queste erano davvero immediate, dato che negli anni Hawkins non avrebbe mai cercato di riprodurre la sua esecuzione nota per nota, fedele alla propria filosofia che si dovesse guardare avanti, mai indietro. Il disco fu osannato dalla stampa specializzata, e suggellò con certezza il suo ritorno ai vertici del successo. Nonostante una successiva esperienza come direttore di big band, buona solo per provare che leader esperti come Cab Calloway e Lucky Millinder non avevano niente da temere, Hawkins poté essere soddisfatto della preminenza in un campo che comprendeva uomini come Chu Berry, Ben Webster, Buddy Tate, Herschel Evans (scomparso solo di recente), Joe Thomas e Dick Wilson. Tutti costoro, e i musicisti che sarebbero venuti dopo, come Lucky Thompson, erano in qualche misura immagini riflesse di Hawkins, anche se ognuno di loro si era costruito una propria personale sonorità e risulta immediatamente distinguibile ad un ascoltatore esperto. Pochi hanno l’attacco ruvidamente tagliente di Hawk, ottenuto fin dall’inizio della carriera usando imboccature piuttosto grandi e ance particolarmente dure. La forza necessaria per superare la sfida di quei materiali frustrava gli altri musicisti, che potevano anche non riuscire a trarvi alcun suono nelle rare occasioni in cui i rivali cercavano di suonare il suo sassofono. A quell’epoca solo un sassofonista tenore sembrava prescindere da Hawkins, un musicista dalla sonorità cosi radicalmente diversa che proprio non vi era nessuna competizione tra loro: Lester Young. Unico nel suo stile da quando aveva abbandonato il contralto per iniziare a suonare il tenore, Young era venuto da Kansas City con Count Basie e nei primi anni era stato spesso messo a confronto in orchestra con Herschel Evans in una scherzosa schermaglia stilistica, incoraggiata da Basie che vedeva bene quanto al pubblico piacessero simili rivalità. Dopo la precoce scomparsa di Evans, Lester avrebbe suonato per un po’ “contro” Buddy Tate, il sostituto di Evans,ma non sarebbe stata più la stessa cosa, e Young se ne sarebbe andato per formare un proprio piccolo gruppo. Hawkins aveva conosciuto Young anni prima, quando, in tournèe con Henderson, si fermò a Kansas City per battersi con i musicisti locali, un gruppetto di impavidi, ma Hawkins, che non avrebbe mai schivato una sfida,portò il proprio strumento ad un incontro notturno che passò alla leggenda, tirando mattina, spostando l’intera sezione ritmica man mano che i sassofonisti ci davano dentro. Ben Webster alla fine mandò a chiamare Mary Lou Williams nel suo letto, costringendola a rivestirsi e a prendere il posto dell’esausto pianista che si era sforzato di tener testa all’infaticabile Hawkins e ai suoi rivali locali, tra i quali c’era Lester Young. Su come sia andata a finire ci sono versioni divergenti, ma ad un certo punto Hawkins rimise il suo strumento nella custodia e lasciò la città nella sua lussuosa automobile, bruciando le gomme per la velocità con cui si diresse verso la città in cui Henderson doveva suonare quella sera. Potrebbe essere stato un pareggio, ma Hawk sapeva di aver partecipato ad una battaglia. La reputazione di Young non migliorò quando Henderson lo prese al posto di Hawkins nel 1934, perché il suo aereo e sussurrato era così diverso da quello dei suoi predecessori che gli altri orchestrali arrivano a provocare il suo allontanamento a favore di qualcuno che suonasse in modo più simile ad Hawkins. Ma alla fine degli anni Trenta, Lester Young aveva un seguito vasto ed entusiasta e, come Hawkins, avrebbe rappresentato il nucleo di un’intera scuola di sassofonisti tenore, anche se non cosi numerosa. Per il resto della sua carriera Hawkins si sarebbe concentrato nella direzione di piccoli gruppi da club, registrando senza posa per tutte le principali etichette e diventando il più popolare tra tutti i partecipanti ai festival jazz. Avrebbe partecipato a molte tournèe del Jazz at the Philharmonic di Norman Granz, spesso impegnato in “battaglie” con musicisti molto piu giovani. Ma quello che rese Hawkins speciale fu la sua abilità nel muoversi con i tempi ed adattarsi ai cambiamenti delle correnti stilistiche, che nella sua maturità furono radicali. Ebbe molte difficoltà a mantenere con successo la direzione di piccole formazioni nella Cinquantaduesima strada all’inizio degli anni Quaranta, quando fece la sua apparizione il bebop. Imperterrito, Hawkins si mise al passo, e utilizzò la tecnica fantastica e i riflessi pronti per fare qualcosa di più che mantenere il proprio posto nella nuova e competitiva situazione. Era abbastanza consapevole dell’emergere dei musicisti moderni, tra i quali c’era Dizzy Gillespie, che era stato nel suo gruppo alla Kelly’s Stable. Una delle più memorabili formazioni utilizzate da Hawkins in sede discografica, per la registrazione con l’Apollo Records del 16 febbraio 1944, schierava quasi al completo il gruppo di Gillespie e Pettiford ingaggiato all’Onyx Club, con l’aggiunta di alcuni altri musicisti. Erano presenti, oltre a Dizzy ed Oscar Pettiford, Don Byas, Budd Johnson, Clyde Hart e Max Roach. Le discografie elencano una seduta dopo l’altra per una grande varietà di etichette. La sfilata di musicisti con cui si esibisce Hawkins si legge come un congresso di stelle di scuola moderna o mainstream. I suoi complessini nella strada e talvolta in tour in altre città portarono a fare buoni affari, il che fece incrementare le vendite dei dischi e queste aumentarono le presenze nei club. Hawkins faceva soldi, ed essendo un attento amministratore delle proprie finanze, viveva piuttosto bene. Non era famoso per pagare salari elevati agli amici musicisti, ma la lusinga di suonare in un’orchestra di Hawkins era decisamente forte. L’impatto visivo di Hawkins su un palcoscenico era indimenticabile. Se ne può ricatturare il profumo guardando il video di The Sound of Jazz o un cortometraggio musicale( realizzato in origine per la televisione) intitolato After Hours. In quest’ultimo, Hawk è affiancato da alcuni suoi amici, il trombettista Roy Eldridge, il pianista Johnny Guardnieri, il chitarrista Barry Galbraith, il bassista Milton Hinton e il batterista Cozy Cole. C’e un passaggio molto divertente che comincia quando Hawkins prende un travolgente assolo per uno o due ritornelli, mentre Eldridge sta evidentemente aspettando il proprio turno, con una certa irrequietezza. Appena Hawkins arriva all’ultima frase, Roy porta la tromba alle labbra, solo per vedere Hawkins infilare un altro ritornello. Tutta la storia si ripete di nuovo, con Roy costretto ad aspettare per altre trentadue battute, questa volta un po’ divertito e un po’ impaziente. Per tutto il tempo, il sassofonista suona prepotentemente, con gli occhi chiusi, le palpebre pesanti contratte e un aspetto minaccioso a completare il ritratto della concentrazione. Nel corso di una seduta di registrazione, in quegli anni, un giovane musicista fu sentito dire: “ Mi fa paura!” Il suo compagno gli diede un’occhiata e replicò”Certo! Deve farti paura!” La vita familiare di Hawkins fu per anni confortevolmente stabile. C’era stato un matrimonio alla fine degli anni Venti che durò poco più di un anno. Non si sarebbe risposato prima del 1943, questa volta con una giovane donna incontrata a Chicago. Avrebbero avuto tre figli, vivendo in un grande appartamento di Harlem, dove Hawkins si dedicava a diversi hobby, come maneggiare trenini elettrici, allevare pesci tropicali e ascoltare i dischi di musica classica di cui aveva un’ampia collezione. All’inizio degli anni Cinquanta, Hawkins era un po’ meno presente sulla scena musicale, ma verso la fine del decennio era tornato ancora una volta nel vortice di attività che aveva segnato la sua vita. Le assenze non fecero altro che aumentare la tensione a cui era sottoposto il suo matrimonio e portarono alla separazione dalla moglie nel 1958. Si trasferì in un appartamento vicino a Central Park, dove avrebbe passato il resto della vita, sempre impegnato in torunèe, alcune delle quali lo riportarono in Europa, dove incontrò una giovane svizzera che lo seguì a New York. Ancora capace di tenere il passo con i contemporanei piu giovani- John Coltrane, Sonny Rollins, Cannonball Adderley-Hawkins partecipò a molti festival e diresse altre sedute d’incisone finchè non sembrò improvvisamente perdere vigore e gusto. Con una barba lasciata crescere senza controllo, scandalizzò il pubblico abituato ad un Hawkins sempre impeccabile e raffinato. Colpì anche chi scrive, quando lo vide ad Indianapolis nel 1967 in una tournèe del Jazz at the Philarmonic. Si diceva che bevesse molto ma che, stranamente, mangiasse pochissimo, due cose che insieme erano destinate a distruggere anche il fisico più robusto. Nel 1969, aveva perso la capacità di controllare anche il suo modo di suonare, che era sempre più debole ed esitante. Nel maggio del 1969 fu scoperto da alcuni amici vestito per un concerto, con le mani serrate alla custodia del sassofono, incapace di fare altro che “nuotare” verso la porta. Morì di polmonite il 19 maggio del 1969. È come se la sua vera vita fosse terminata qualche tempo prima, insieme con il declino del suo spirito competitivo e con la quasi certa sicurezza che il suo lavoro fosse stato finalmente compiuto.
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