Bill Evans
Intervista a cura di Don Nelsen – Down Beat – Dicembre 1960
Potra' deludere i credenti nella leggenda del jazz, ma la verita' e' che Bill Evans e' diventato uno tra i piu' creativi musicisti di jazz moderno senza il beneficio di un'infanzia miserabile. Con candore dice:” Ero molto felice e sicuro fino a quando ho fatto il militare. Poi ho iniziato a pensare che c'era qualcosa che ignoravo e che avrei dovuto sapere".
Se il pianista trentunenne scompagina alcune ambite illusioni sulle origini dei musicisti jazz, ne distrugge un'altra nutrita da molti dei musicisti stessi e caldamente accarezzata dagli hippies e cioe' che un jazzman sia interessato solo al jazz.
Evans non e' tale provinciale intellettuale. Innanzitutto, non crede che il jazz – o la musica in generale – siano necessariamente la chiave di quel “qualcosa” che inizio' a cercare sotto le armi. Il suo atteggiamento a tale proposito e' che il jazz non e' il fine per molti jazzisti.
E' solo un mezzo.
Uno sguardo alla sua biblioteca e' gia' un' indicazione di cosa abbia in mente.
La molteplicita' dei libri mostra quali percorsi abbia
esplorato per giungere a quel “qualcosa”: Freud, Whitehead, Voltaire, Margaret Meade, Santayana e Mohammed, sono tutti li' e, naturalmente lo Zen. Si puo' arguire che, con lo Zen, Evans sia colpevole di seguire un trend intellettualistico dato che tutti sanno che Kerouac, Ginsberg &Co detengono l'esclusiva della filosofia Orientale?
Evans fa un gesto di rassegnazione con la mano e dice: “Ero interessato allo Zen ben prima dell'inizio del suo big boom-- lo avevo scoperto giusto prima di essere congedato, nel 1954. Un amico, aveva conosciuto Aldous Huxley che gli aveva segnalato lo Zen come cosa da approfondire. Allora era quasi impossibile trovarne traccia nella letteratura ma, finalmente riuscii a trovare del materiale nella libreria Filosofica di Manhattan. Ora, lo puoi trovare in qualsiasi drugstore. Non pretendo di capire lo Zen come filosofia ma lo trovo confortante e molto simile al jazz. E' come il jazz che non puoi spiegare a chiunque senza frane l'esperienza. Bisogna provarlo perche' esprime un feeling, non parole.
Le parole sono gli infanti della ragione, quindi non lo possono spiegare. Non si puo' tradurre il feeling se non se ne e' partecipi.Ecco perche' mi inquieta sentire le persone cercare di analizzare il jazz come teorema intellettuale. Non lo e' - E' feeling.” [.....]
Indubbiamente, i 4 anni spesi a New Orleans e la frequenza del Southeastern Louisiana College hanno largamente contribuito a determinare l'enfasi sul feeling e ha esercitato una grande influenza sulla sua personalita' e sul suo stile pianistico. Lui stesso ammette essere stato quello il miglior periodo della sua vita.
“E' stato il migliore” dice, “ perche' avevo appena compiuto 17 anni ed ero da solo per la prima volta. E' un'eta' in cui tutto desta
grande impressione e la Louisiana mi impressiono' notevolmente. Forse e' lo stile di vita della gente. Il tempo e il passo sono lenti. Mi sono sempre sentito rilassato, in pace. Nessuno mai ti spingeva a fare questo o a dire quell'altro. C'era una sorta di liberta' diversa da qualsiasi cosa al Nord. Il rapporto tra nero e bianco era amichevole, intimo.
Non c'era ipocrisia e questo, per me, e' importante. Lo dissi a Miles (Davis) quando suonavo con lui e gli chiesi se capiva cio' che intendevo.
Disse di si. Ora io non affermo che l'atteggiamento ufficiale sia simpatetico o altro. Vi sono cose terribili che accadono laggiu' ma, ve ne sono anche altre positive e l'appartenenza al paese e' una di quelle". [...] Era il modo di Evans di configurare le cose ed attrarre l'attenzione dei suoi simili. A New York in meno di 5 anni, ha lavorato con Mingus e Davis noti per scegliere i propri sidemen con cura e discriminazione. E' ovvio che Evans ha il tocco ma, e' ancora insoddisfatto del suo stile ed essendo un artista c'e' da dubitare che lo sara' mai.
Anche un pur rapido ascolto fara' intuire che l'anelito di Evans per una bellezza semplice non e' senza i suoi trionfi. Quando suona, e' come Hemingway che racconta una storia; frasi estranee sono rare. La storia e' raccontata con la stringatezza piu' severa e quando e' terminata ti veiene voglia di dire: “Ma certo! E' cosi' semplice.
Perche' non ci ho pensato? "In essenza Evans e' un “sinedocchista”, un artista che implica tanto quanto suona, colorando ogni nota e rendendo la sua musica cosi' toccante con un feeling profondo, ritmico e quasi religioso che e' poi la forza determinante del jazz.
Forse furono queste le qualita' che raccomandarono Evans a Miles Davis quando quest'ultimo perse la collaborazione di Red Garland. La decisione fu in controtendenza per Miles. Chiacchere in giro dicevano che il colore della pelle di Bill deprezzava automaticamente il suo valore per il gruppo. Ma Davis sapeva cio' che faceva e l'inserimento ebbe successo per entrambi.
Bill suono' con Davis 8 mesi, poi mollo'. Il motivo disoriento' un buon numero di persone nel mondo del jazz. Suonava con uno dei musicisti piu' apprezzati del momento, con una retribuzione di 200 dollari alla settimana (ca. Lit. 300.000/sett. Lo stipendio medio mensile in Italia era ca. Lit. 110.000 - N.d.T.). Il lavoro non rappresentava solo un inestimabile prestigio ma anche un'opportunita' di crescita artistica. Bill spiego' il motivo della separazione con una dichiarazione, come la sua musica, semplice: “A quel tempo non mi sentivo all'altezza; volevo suonare di piu' per capire dove stavo andando. Mi sentivo esausto in tutti i modi: fisicamente, mentalmente e spiritualmente. Non so perche'.
Forse era il suonare in giro ma, penso che il tempo speso con Miles sia stato probabilmente il piu' benefico che abbia speso in anni e non solo sul piano musicale, ma anche su quello personale. Mi ha fatto un gran bene.”
Lasciato il gruppo di Davis, volo' in Florida a trovare i suoi genitori. “E a pensare.” dice. Il soggiorno fu molto fruttuoso. Al momento di tornare a New York nel novembre del 1958, Bill aveva dissipato la nebbia nel cervello e giocato molto bene a golf, fatto che gli aveva procurato una certa soddisfazione e la voglia di affrontare i suoi problemi musicali.
Per farlo, usava un metodo comune a tutti gli artisti, siano musicisti, pittori, scrittori o matematici. Si concentrava intensamente sul suo “muro di pietra” e quando lo attraversa esplorava il nuovo terreno per sei mesi. Ma poi si annoiava, e, quando si presentavano nuovi problemi, lo abbandonava per ricominciare lo stesso processo.
La sua concezione musicale e' ora piu' consona alla realta'; non e' piu' il giovane confuso il cui feeling per la musica era stato malamente scosso dalla psicologia militare sotto le armi.
“Tutti mi dicevano come dovevo suonare e presto smisi di credere nelle mie capacita'. Pensavo di sbagliare tutto cio' che facevo. Ma ora sono ritornato alla mia condizione prima di essere arruolato. Non me ne frega piu' niente di cio' che dicono gli altri. Faccio cio' che ritengo sia giusto fare.
Ed e' proprio cio' che fa con il suo trio, con Paul Motian e Scott La Faro. Al momento e' ragionevolmente soddisfatto dei risultati. “ Se c'e' insoddisfazione nel gruppo, e' solo con me stesso”.
Il fatto che un gruppo di musicisti che suonano continuamente insieme possano diventare stantìi o rigidi nei loro atteggiamenti e' subordinato alla capacita' individuale, osserva Bill.
“Come leader, il mio ruolo e' quello di dare una direzione al gruppo” dice ”... e Paul (Motian) e Scott (La Faro) si sono dichiarati piu' a loro agio con il trio che in qualsiasi altra formazione.
Puo' un gruppo diventare stantìo? Tutto dipende se c'e' uno stimolo continuo e se tutti i musicisti coinvolti desiderano essere compartecipi del progresso di ciascuno. Per quanto mi concerne, io voglio crescere, ma senza doverlo forzare. Voglio suonare nel miglior modo a me possibile, ma non necessariamente altrettanto diverso. Non mi interessa cambiare coscientemente l'essenza della mia musica, ma preferirei che si rivelasse in modo progressivo, mentre suono.
Cio' che importa non e' lo stile in se' ma il modo in cui lo sviluppi e quanto bene puoi suonare entro i suoi confini. A volte Paul, Scott ed io suoniamo il medesimo brano sera dopo sera e, occasionalmente tutto quadra e pensiamo che cio' sia sensazionale. Naturalmente puo' anche non significare granche' all'ascoltatore momentaneo ma, d'altra parte, coloro che frequentano i locali non prestano molta attenzione. Ad oggi, il trio si e' consolidato gia' da molti mesi con un alto gradimento in generale. I ragazzi non suonano cosi' frequentemente come vorrebbero, ma non fanno la fame.” (Guardate come il jazz, allora, si accontentava di poco a differenza di oggi, quando si possono contare diversi jazzisti milionari: Jarrett, Chick Corea, Herbie Hancock per citare i
piu' osannati.N.d.T.)
Evans non pone restrizioni alle caratteristiche dei locali in cui suonare. “Suoneremo il qualsiasi luogo” conclude “ dove la gente ascolti ".
E cio' dovrebbe essere praticamente dappertutto. Down Beat- dicembre 1960.
Ettore Ulivelli
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