I BERTOLAZZI DI BOLOGNA

 
 
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I Bertolazzi di Bologna




di Tano Ponzoni






Sei anni in meno potevano sembrare molti quando alla fine degli anni '30 conobbi Mario Bertolazzi (1918-1983), allora ventenne. Eravamo al primo piano della sua casa in via Alessandrini a Bologna dove, in una stanzetta, il pianoforte rappresentava il centro dell'attenzione dei giovani patiti di jazz.
Era la musica a livellare le nostre età. Al piano c'era Mario che, con le sue tozze mani, ci suonava il suo "Tiger Rag" sullo stile di Fats Waller. Noi stravedevamo per lui, pioniere, almeno a Bologna, di una musica che i più stentavano a digerire.
Figlio di musicisti dilettanti, Mario Bertolazzi, allora autodidatta, si stava rivelando uno dei più promettenti pianisti di jazz. Già nel 1940, fatto eccezionale per quei tempi, la Voce del Padrone gli aveva fatto incidere in 78' quattro facciate ("Sera", "Ciribiribin", "Sogno d'amore" e "Improvvisando").
Erano gli anni folli dello swing, in Italia, e Mario ne aveva da vendere. Per molti anni Mario continuò a suonare per i suoi “ragazzi”, alternando il jazz ai suoi studi alla facoltà di Farmacia, fino a che vennero, purtroppo, i tempi duri della guerra. Come molti di noi, dovette "partir soldato".


Quando finalmente venne la pace, il tenente Mario Bertolazzi fece ritorno a casa con una gran voglia di suonare e di avere una orchestra tutta sua, e poter così orchestrare, a modo suo, le canzoni che gli Alleati ci avevano fatto conoscere e che si aggiungevano a quelle, diremo così, storiche. Si diplomò al Conservatorio di Bologna e, con pochi indiavolati ragazzi, cominciò a suonare nei molti locali da ballo di Bologna e in giro per l'Italia. Ma, dopo qualche anno di questo infernale lavoro e qualche trasmissione alla neonata RAI, Mario non ne poté più e si trasferì a Milano... in cerca di maggior fortuna.
Fu qui che ci incontrammo di nuovo in un piccolo appartamento buio a Porta Vittoria, dove viveva con la moglie e col piccolo Claudio che nel frattempo era nato.
Ancora una volta la musica ci riunì e rinsaldò la nostra amicizia. Ma erano ancora anni duri per tutti. Mario cominciò a lavorare, ma per gli altri, orchestrando brani per vari direttori, tra i quali il Maestro Dino Olivieri,allora in grande auge. Ebbe però anche una sua orchestra da studio, con la quale incise qualche 78' per la Voce del Padrone.
Finalmente, negli anni '50, la RAI si ricordò di lui, e Mario, pur restando un ottimo pianista, decise che il suo strumento dovesse essere l'orchestra. Nacquero così, in quegli anni, composizioni e arrangiamenti per famosi spettacoli TV, come "Rosso e nero", "Un, due e tre", "L'amico del giaguaro", e musiche per riviste con Macario, Tognazzi, Chiari, Dapporto, Bramieri, i Cetra e molti altri. Divenne a poco a poco, questa, la sua principale attività. Le cose andavano bene per Mario quando si trasferì a Roma, ma questo ci divise una volta ancora. Il pianoforte, il suo primo amore, lo aveva riservato ormai a rare apparizioni a qualche "revival" a Bologna, o a riunioni con amici. Poi, un terribile male ce lo portò via del tutto. Ma, per quei ragazzi del '40, l'immagine di Mario Bertolazzi resterà sempre indissolubilmente legata al suo pianismo, al suo grande swing, e alle musiche delle riviste universitarie (di Enzo Biagi-Mangilli-Bertolazzi) degli anni di guerra, e soprattutto a una canzone, "Pallida stella", una sua canzone quasi premonitrice, nelle sue parole "piango solo, con questo mio povero cuore che tenta di raggiungere gli astri d'or ...".


Chi invece rimase sempre, nella sua breve esistenza (1924-1976), legato al pianoforte fu Renato Bertolazzi, più giovane di qualche anno del fratello che amava e ammirava moltissimo. Era un ragazzo riservato, schivo. Per non interferire con l'attività di Mario, quando diresse una sua "big-band", prese il cognome di Berti. Fu certamente un eccezionale musicista e un pianista di stile, per quei tempi, modernissimo. Alla Lennie Tristano, per intendersi.
L'idea della Big Band venne ad un gruppetto di amici che, negli anni di guerra, sotto il nome di "Diavoli del Ritmo", si esibiva con successo negli Ospedali Militari e in qualche teatro di Bologna e dintorni. Pur avendo un ottimo pianista, Sergio Cassani, chiamammo Renato Bertolazzi per avere un'organizzazione musicale. Nei primi mesi del '45, ancora in periodo di guerra, si provava al 9° piano di una casa bombardata, dove qualcuno aveva·dimenticato, o aveva abbandonato, un pianoforte. Mancavano infatti intere rampe di scale sostituite da traballanti assi di legno.
Provavamo lassù, al riparo dalle proteste dei vicini (eravamo in 15!), ma soprattutto dalle retate dei tedeschi e delle Brigate·Nere. Sembra una favola, a raccontarla oggi!
Finita la guerra, sotto il nome di "Blue orchid orchestra" (il nome l'avevo proposto io), ci esibimmo in una grande sala da ballo di Bologna. Ci sarebbe da scrivere molto di più su quel periodo della nostra vita, nel quale si assommavano, insieme ad una gran voglia di divertirsi, entusiasmi e grandi speranze di un mondo migliore: speranze in discreta parte andate deluse! Ricordo solo che andammo tutti e per ben 14 volte, a rivedere il film "Serenata a Vallechiara", dove appariva per la prima volta l' orchestra di Glenn Miller. Lo scopo era quello di trascrivere musica, parole ed orchestrazioni dei motivi del film; che poi includemmo con grande successo nel nostro repertorio. Suonammo anche per un programma di Radio Bologna, ai tempi della gestione del P.W.B. degli Alleati, e in vari campi militari americani.


Renato Bertolazzi era un ottimo arrangiatore e direttore di orchestra. Per il successo della nostra orchestra sembrava che egli avesse rinunciato, come il fratello, al ruolo di brillante pianista, quale lui era. Ma poi, scioltasi la "band" per motivi finanziari (costava troppo in tempi in cui, per ballare, la gente si accontentava di una fisarmonica) e per impegni universitari (si laureò in Legge), Renato si dedicò di nuovo al pianoforte, ma quasi esclusivamente per "Jam Sessions" a casa di amici, dove, senza farsi troppo pregare, sfoderava il suo stile brillante e moderno. Purtroppo, la distanza me lo fece perdere un po' di vista. Seppi solo troppo tardi che si era ammalato ed aveva preceduto di pochi anni l'amato fratello Mario, per diventare anche lui una “Pallida stella”.

 

 


 

 



 

 

 





 
 
   
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